‘Gli uomini mi spiegano le cose’ è l’ultimo saggio della scrittrice femminista americana Rebecca Solnit: mentre Time sceglie come persona dell’anno il movimento #MeToo, questo libro illumina il continuum cha va dal mansplaining alla violenza e ai suoi effetti, tra i quali la paura e il silenzio. E ci dice però che non si deve rinunciare all’immaginazione e alla speranza, perché se questa è la malattia, tutte e tutti siamo responsabili della cura
Da piccola avevo ereditato da mia sorella un gioco che si chiamava “L’allegro chirurgo”. Su una tavola di cartone era disegnato un ometto panciuto con una lampadina rossa al posto del naso che aveva il corpo costellato da piccoli vani a forma di organi come il pomo d’adamo, il cuore o la milza. Lo scopo era quello di estrarre dal vano l’organo senza toccare i bordi metallici con il bisturi altrimenti l’uomo “strillava” di dolore e il naso diventava rosso.
Quello che avevo ereditato dalla mia scatenata sorella era un po’ scassato e quindi tre o quattro organi non rilevavano il contatto neanche se ci battevi sopra con il bisturi. Mi era venuto il dubbio che forse quegli organi funzionassero in quel modo, nel silenzio, salvo poi ovviamente vedere altri Allegri chirurghi a casa di amiche che confermavano il malfunzionamento del mio sensore di rilevazione del dolore.
Per me affrontare testi di femminismo significa molto spesso accorgermi che il mio sistema di rilevazione sensibile ha qualche malfunzionamento e che non sento dolore dove sarebbe normale sentirlo: che non sento più rabbia se il dottore mi guarda troppo a lungo il seno, che non mi irrita quando mi chiamano “bimba” o “bellezza”, che non mi urta vedere antologie di saggi in cui 3/4 degli autori interpellati sono maschi, che non mi infastidisce vedere quasi sempre uomini nei ruoli esecutivi mentre le donne abitano con grazia dimessa i propri ruoli ancillari, ad ogni livello e in qualsiasi azienda, soprattutto in Italia, (non penso ci fosse bisogno di sottolinearlo eppure penso ci sia comunque bisogno di sottolinearlo, prima di perdere davvero ogni sensibilità rispetto al problema), che per insultare un politico lo si chiama ladro mentre una politica donna la si definisce puttana, che sinceramente poi non me ne frega più niente di cambiare le cose perché tanto “loro sono sempre gli stessi” e “nulla cambia” e quindi “carine e colorate le marce femministe ma oltre a fare amicizia non servono a nulla”.
Rebecca Solnit, scrittrice californiana, femminista, attivista, autrice di diversi testi di non-fiction letteraria tra cui Gli uomini mi spiegano le cose mi direbbe che sono una cinica naive e che la disperazione è un lusso che non mi posso permettere.
Leggere Gli uomini mi spiegano le cose è stato come risvegliare alcuni vani del mio corpo fisico, emotivo e intellettuale che pensavo fossero ormai completamente desensibilizzati. Già il titolo tira una piccola scossa alla memoria personale, perché mi pone di fronte a certe domande: quante volte mi sono fatta spiegare dagli uomini delle cose senza neanche provare a darmi una spiegazione da sola? Quante volte ho ascoltato risposte per domande che non avevo posto? Quante volte ho posto domande o provato a dare risposte che non hanno ricevuto ascolto? Quante volte ho preferito astenermi dal domandare per paura di sentirmi stupida? Quante volte ho preferito tacere per non togliere al maschio il piacere di spiegarmi qualcosa o per paura di risultare isterica?
L’episodio che ispira il titolo si svolge nella casa di un “uomo importante” che, dopo aver saputo che Solnit ha scritto su Muybridge, un pioniere della fotografia in movimento, le suggerisce di leggere questo importantissimo saggio su Muybridge ed è talmente assorto nelle proprie parole da non rendersi conto che stanno provando ripetutamente a dirgli che è proprio Solnit autrice di quel saggio che lui, in ogni caso, non ha neanche letto.
Premetto che questo non è un libro preparato per far fare una figura meschina agli uomini, anche se ce la mettono davvero tutta per farla e Solnit non risparmia episodi e dati né prova a negare il fatto che la quasi totalità delle azioni criminali violente nel mondo è commessa dagli uomini. Ma lei stessa inizia e chiude questa raccolta di saggi ricordando che tra gli uomini ci sono preziosi alleati e che “gli uomini che comprendono il problema capiscono anche che il femminismo non è un complotto per defraudare i maschi, ma una campagna per la libertà di tutti”. Fatte le premesse però, si comincia sempre dal corpo delle donne, da questo “allegro paziente” assopito e assuefatto alle percosse.
Il richiamo alle cifre che la Solnit elenca nel secondo saggio con un ritmo implacabile è un risveglio brusco e spiacevole: 1 donna su 5 subisce una violenza sessuale nel corso della vita e il fatto che negli Stati Uniti si denunci uno stupro ogni sei minuti significa solo che in realtà la cifra effettiva è forse cinque volte maggiore, senza dimenticare che “le oltre 11.776 vittime di omicidi riconducibili a violenza domestica registrate tra l’11 settembre e il 2012 superano la somma del numero delle vittime di quel giorno e di tutti i soldati americani morti nella «guerra al terrore»”. Queste cifre ricordano che le donne sono in una guerra da cui non tornano mai a casa.
E ancora: “«In tutto il mondo le donne di età compresa fra i 15 e i 44 anni hanno maggiori probabilità di morire o di restare menomate a causa della violenza maschile che non a causa della somma complessiva di tumori, malaria, guerra e incidenti stradali» scrive Nicholas D. Kristof, una delle poche figure di rilievo a occuparsi della questione con regolarità”.
Il riverbero della percossa e della violenza è la paura, quella che mi chiude in casa la sera, mi allunga la gonna, mi copre il décolleté, mi serra la bocca, mi fa fare corsi di autodifesa e mi fa passare troppo tempo a pensare a come difendermi dalla violenza piuttosto che a fare qualsiasi altra cosa. Così come succede al movimento femminista oggi che conta i morti, tampona le emergenze e prepara piani di difesa piuttosto che prendersi tempo per l’immaginazione e l’incertezza e usare questa rabbia per creare altri mondi e altre relazioni sociali. Solnit spiega meravigliosamente cosa sia questo tempo oscuro nel saggio L’oscurità in Virginia Woolf – Abbracciare l’inesplicabile dove descrive una discussione con Sontag in cui “lei sosteneva la tesi che bisogna resistere per principio, anche se potrebbe essere inutile. Io avevo appena iniziato a portare avanti l’idea della speranza nella scrittura, e controbattei che non si può sapere se le nostre azioni saranno inutili, che non si possiede memoria del futuro; che il futuro è davvero oscuro, il che tutto sommato è la cosa migliore che possa essere”, proprio come sapeva anche la Woolf che decenni prima “portava avanti le sue istanze per la liberazione femminile non perché le donne potessero fare alcune delle cose istituzionali che facevano gli uomini (e che oggi fanno anche le donne), ma perché avessero piena libertà di muoversi, sia in senso geografico che con l’immaginazione”.
Questo è il potere che voglio anche io. Il potere di dire non lo so cosa sia una società femminista, ma sono disposta a rischiare di immaginarla. A questo proposito non so dire cosa sia il patriarcato, ma uno dei pregi di Solnit sia in questo libro che nelle interviste (se capite l’inglese andate su youtube, Solnit è una straordinaria oratrice) è di prestare ascolto a tutte le modalità con cui il patriarcato, che non è semplicemente “il maschio sciovinista”, impedisce un reale progresso nella società: “La liberazione femminile è stata spesso descritta come un movimento determinato a usurpare o portare via agli uomini il potere e i privilegi, come se, in uno squallido gioco a somma zero, il potere e la libertà potessero appartenere di volta in volta solo all’uno o all’altro sesso. Ma o si è liberi e libere insieme, o si è schiavi e schiave insieme”.
“Ho forse già detto che la violenza sulle donne è una questione di potere?” ironizza Solnit ricordando che questa violenza si esprime in un continuum che va dall’uomo che le spiega le cose al femminicidio in un tipo di prevaricazione che varia solo per intensità, e che, secondo me, travalica anche il genere. Penso che la visuale di Solnit su questo continuum per ora sia un po’ stretta. Penso che, negli interventi di Solnit, la carenza di intersezionalità – teoria per cui le diverse identità in relazione a sistemi di oppressione si intersecano per creare nuovi nuclei identitari più complessi di quelli di partenza come, per esempio, nel caso di una donna omosessuale afro-americana oppressa su più fronti – sia da una parte una scelta finalizzata a compattare una collettività femminile che deve riconoscere i sintomi di una malattia in corso e, dall’altra, un’incapacità di teorizzare altri femminismi che includano tutti i fattori di vulnerabilità compresi il reddito, la classe, l’educazione (il problema non è solo se io donna e madre faccio carriera, ma anche se io donna madre che arrivo al vertice ho avuto o meno i soldi per la babysitter). Dopotutto Solnit è una storica e una scrittrice e quello che ci porta con questo saggio è un panorama complesso, è il racconto di una peste virulenta i cui sintomi si esprimono sia sul carnefice che sulla vittima: il silenzio è uno dei quelli.
Uno degli episodi riportati nel libro più dolorosi al riguardo è quello della cameriera della Guinea aggredita dal potentissimo direttore del Fondo Monetario Internazionale e che aveva scatenato un putiferio denunciandolo: “Solo adesso una giovane donna che ha dichiarato di essere stata aggredita da Strauss-Kahn nel 2002 si è decisa a denunciare: era stata sua madre, impegnata in politica, a convincerla a non farlo, mentre lei temeva le possibili ripercussioni sulla sua carriera di giornalista (a quanto pare, invece, la madre temeva più per la carriera di lui)”.
Il silenzio è sicuramente uno dei sintomi più inspiegabili, ma più diffusi delle vittime di questa violenza e, come ricorda Solnit, solo di recente si è cominciato a identificare anche nelle vittime dello stupro la sindrome da shock post-traumatico. È difficile denunciare, parlare, dare il nome e bisogna scegliere bene le parole perché “generazioni di donne sono state bersagliate di accuse: di essere deliranti, confuse, manipolatorie, maligne, delle intriganti, di avere una tendenza innata alla disonestà, e spesso tutte queste cose insieme; la si potrebbe definire «sindrome di Cassandra». Cassandra lo era già Betty Friedan in La mistica della femminilità pubblicato nel lontano 1963: “Il problema senza nome – il quale è semplicemente il fatto che si impedisce alle donne americane di sviluppare pienamente le loro capacità umane – incide sulla salute fisica e mentale del Paese più di ogni altra malattia conosciuta”.
È un problema di linguaggio? Per Solnit decisamente (ok, è una scrittrice, se non è in fissa con le parola lei, chi può esserlo): “Violenza domestica, mansplaining, cultura dello stupro e sexual entitlement sono alcuni degli strumenti linguistici che ridefiniscono il mondo con cui le donne si confrontano ogni giorno e che aprono la via al cambiamento”. I soggetti – assoggettati, uomini e donne, oppressi di qualunque tipo e in qualunque forma – non sono responsabili di questa malattia della violenza, ma sono e siamo tutti decisamente responsabili per la cura.
Per la cura è necessario fare due cose: innanzitutto bisogna schivare la “tirannia del quantificabile”: “Il mio amico Chip Ward parla di «tirannia del quantificabile», di come ciò che può essere misurato abbia quasi sempre la priorità su ciò che non può esserlo: il profitto privato sul bene pubblico, rapidità ed efficienza sul piacere e sulla qualità, la funzionalità sui misteri e i significati, che servono molto di più alla nostra sopravvivenza e a cose che vanno oltre la sopravvivenza, a esistenze con un valore e un senso che ci sopravvivono, per fondare una civiltà in cui valga la pena vivere”.
E ancora: “La rivolta contro questa distruzione è una rivolta dell’immaginazione a favore delle sottigliezze, dei piaceri che il denaro non può comprare e che le grandi aziende non possono imporre, dell’essere fabbricatori piuttosto che consumatori di senso, di ciò che è lento, del tortuoso, delle digressioni, delle esplorazioni, dell’arcano, dell’incerto”.
La seconda cosa da fare è prendersi l’imbarazzante responsabilità della speranza, come dice Solnit in un’intervista, “quel vestito rosa che nessuno vuole indossare perché hanno tutti scelto il vestito nero, un po’ più figo”. È la speranza, rosa e naive, ad elencare ad alta voce i diritti che le donne hanno e non sanno di avere, come riportano le donne della Selva Lacandona che Solnit incontra nel 2007: «La cosa più triste è che non comprendevamo le nostre difficoltà, perché subivamo abusi. Nessuno ci aveva parlato dei nostri diritti». La cura dev’essere contagiosa quanto la malattia ed è quindi questo lo scopo di libri come questi, di trasmettere un messaggio che risvegli gli arti intorpiditi o malfunzionanti.