Molti artisti ultracontemporanei (sessantadue) danno vita a una mostra al PAC sulle interferenze tra arte e cinema: Glitch. Ma funziona?
In passato, innovazioni tecnologiche e tecniche artistiche si sono sempre alternativamente amate e odiate. Chi più favorevole, chi meno, ormai nel XXI secolo la sperimentazione artistica che unisce diverse tecniche, materiali e procedimenti è fenomeno consolidato e stimolante, ovviamente sempre se supportato da un’idea e un progetto artistico solidi. Bisognerebbe, insomma, sempre chiedersi: perché dipingere su velluto e non su tela? Perché scegliere il video e non l’incisione? Perché la foto analogica e non quella digitale? E via dicendo.
Lo spazio scomposto e stimolante del PAC è stato organizzato, da Davide Giannella, in modo da articolare la mostra su tre diversi livelli: il primo è quello dedicato al video, il secondo alle installazioni e il terzo alle performance. Il primo livello, in assoluto il più completo, si divide in tre piccole sale dove vengono proiettati 64 film d’artista, tra cui spiccano Marinella Senatore e Rä di Martino. Sarebbe impossibile seguire tutti i video dedicando le solite due ore (quando va bene) che siamo soliti spendere per una mostra, se non fosse che, alla modica cifra di 10 euro si può acquistare un abbonamento che consente ingressi illimitati a tutti i film e le performance in programma. Una buona idea, che nasconde una riflessione su uno dei più grossi problemi delle video-art exhibitions.
Quando si decide di oltrepassare la tende rossa che separa l’ultima sala cinematografica dal resto dell’esposizione, i suoni sovrapposti dei tre cinema si intersecano in modo divertente e piacevole, accompagnandoci nella visione dell’ultimo film, e di tutto il resto della visita, come la colonna sonora di un confuso film d’azione.
Le installazioni più significative e coerenti riutilizzano i vecchi strumenti da archeologia del cinema: pellicole, ingranaggi e flipbook (immagini che si susseguono in veloce progressione, dando origine ad un’animazione: roba per bambini anni ’60), fino a tecniche ottocentesche di messa in moto dell’immagine.
Da queste installazioni si sarebbe potuto passare direttamente alle esposizioni fotografiche, tralasciando altre opere grafiche e scultoree che forse si sarebbero potute concentrare dopo tutto il resto, creando così una coesione maggiore tra tecniche cinematografiche e fotografiche. Le foto sono perlopiù raggruppate in serie, e raccontano una storia senza necessariamente indulgere nelle categorie consolidate di azione/movimento. In questo senso, pare emblematica l’opera di ZimmerFrei (collettivo di artisti nato nel 2000 a Bologna) che trasforma quattro tavole fotografiche in uno storyboard.
Glitch in inglese significa intoppo, cattivo funzionamento, anomalia. Forse non era di buon auspicio intitolare così una mostra che, talvolta, dà proprio l’intenzione di essere bloccata e incoerente nella disposizione dei materiali. Oppure – forse – si trattava di rilevare proprio l’intoppo in cui non si può non incappare quando si parla di sincretismo artistico? Forse, allora, a nessuno interessava la coerenza espositiva e la perfetta fusione di cose molto diverse tra loro, e il gioco stava proprio nel creare degli intoppi. Forse sì, o forse no.
“Glitch”, PAC, fino al 6 gennaio 2015.
Foto: Alterazioni Video, Ambaradan [still from movie], 2014. Courtesy of the Artist and the Gallery.