Goat: uno psichedelico ballo in maschera

In Musica

Ci risiamo. Il misterioso gruppo svedese ha risfoderato il suo repertorio afrobeat, condito di musica etnica e distorsioni zeppeliane. Sempre rigorosamente in incognito

Arci Magnolia, 7 maggio, tre giorni dopo il plenilunio. Gli svedesi Goat indossano le loro maschere e i loro costumi per un’ora e mezza di musica sincretica come il culto vudù di cui si fanno portavoce e cerimonieri.

Prima sale sul palco la sezione ritmica (basso, djembè, batteria e due chitarre): si dispongono a semicerchio, pressoché immobili per tutto il concerto, delimitano lo spazio rituale. Poi le due cantanti-sacerdotesse: danzano prese da una mania dal sapore africano, le loro mani invocano gli spiriti del giorno e della notte, battono tamburelli, campanacci, sonagli, cantano all’unisono «Lightning in the sky. Boy, you better run to your mama now».

La loro musica è un mix di rock psichedelico e afrobeat, distorsioni zeppeliane e riff d’ispirazione soukous, dal Mali, dal Lagos, chitarra noise su basso funky, melodie hindi, mordente punk. Chi più ne ha più ne metta. Christian Johansson (unico del gruppo ad aver rivelato la sua identità) racconta così il loro primo lavoro in studio del 2012: «The title World Music was chosen because we believe we play “world music”, and that’s what we think everyone plays». Un’attitudine cosmopolita che lega Santana ai Tinariwen, Nitin Sawhney ai Massive Attack. Un’attitudine che ci piace, di cui c’è bisogno.

I brani sono ben distribuiti tra il primo album, il già citato World Music, e il secondo in studio del 2014, Commune, entrambi pubblicati sotto la Rocket Recordings. Il pubblico esplode alle primissime note dell’ipnotica Run To Your Mama e dell’adrenalinica Golden Dawn, si smuovono anche i corpi più tiepidi, c’è chi si pente di aver appena preso una media alla spina.

La sottile linea tra sacro e profano sbiadisce tra le braccia alzate del pubblico, tra chi prega e chi riprende. Qualcuno non si fa coinvolgere facilmente in questo gioco di maschere e gestualità rituali, ché «però i costumi non appartengono a nessuna etnia realmente esistente», ché «io non ci credo che nel loro paesino c’è una tradizione vudù come dicono», ché «tanto alla fine è marketing». Gli risponde un altro: «Mo’, sta’ zitto e balla». Perché, impianto scenico a parte, i Goat suonano di brutto, un succulento arrosto di capra dietro a una coltre di fumi psichedelici, servito in salsa groove su un letto di percussioni denudapiedi.

Ai più scettici, Johansson spiega il perché dei travestimenti (ma anche senza spiegazione andava benissimo lo stesso): «In northern Sweden – it is hard to explain in English – it is about not drawing attention to yourself. The important thing is what you do, not who does it». E allora, che siano alte cariche ecclesiastiche, giovani donzelle affette dal morbo grigio, o satiri mezzi uomini e mezzi bovidi, «Tell my name, when you talk to God».

I Goat al Circolo Magnolia

Fotografie: © Alberto Pezzali / Nightguide.it

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