The Ballad of Sexual Dependency della fotografa americana Nan Goldin approda alla Triennale di Milano. Ed è un capolavoro.
Trovare parole per le immagini è sempre difficile, ed è sempre fare violenza a un sistema di segni – quello delle arti visive – che si regge su altri presupposti. Lo stesso può dirsi per i film, la musica, l’architettura, eccetera. Quando, quindi, si tratta di scrivere di uno slideshow, ovvero di una sequenza di foto e musica, la cosa si complica ulteriormente. E se lo slideshow in questione è uno dei capolavori dell’arte dell’ultimo quarto del Novecento, scriverne diventa un’attività ai limiti dell’imbarazzante.
La pretesa di restituire a parole tutto quello che la Ballad of Sexual Dependency di Nan Goldin (Washington, 1953) può dare per immagini è puerile, e va accantonata. Bisogna semplicemente andarla a vedere, in Triennale. Anche perché è la prima volta che lo si può fare in Italia. Dura 40 minuti circa, e viene proiettata a certi orari del giorno, fino al 26 novembre.
Quel che posso vagamente provare a fare è raccontarvi cosa ho pensato io in quel tempo lunghissimo, per gli standard di oggi, che quest’opera ha preteso dalla mia agenda. Sono andato in Triennale, ho fatto il biglietto, ho letto, aspettato il mio turno. Sono entrato e, pur potendo uscire, pur avendo già visto la Ballad altre volte, sono rimasto lì, non ho fatto fotografie, ho solo pensato. Per 40 minuti. E poi ho continuato a pensare, fino al momento di scrivere questo articolo. E, anche non contando il tempo che ho impiegato in passato a pensare alla Ballad prima e dopo averla vista, il tempo che l’opera ha richiesto alla mia mente è infinitamente più esteso di quello che normalmente pretendono le opere d’arte contemporanea, il cui senso si esaurisce troppo spesso – a essere fortunati – in troppo poche frasi. Nan Goldin, invece, fa pensare, e questo è di solito un ottimo segnale sulla via dell’essere un/una grande artista. E allora ripercorro questa sorta di flusso di coscienza scatenato prima, durante e dopo lo show.
Prima di entrare.
Il titolo dell’opera. Preso da una canzone dell’Opera da tre soldi di Brecht, dà subito un quadro da tenere in testa: The Ballad of Sexual Dependency. Si parla di sesso, si parla di dipendenza (“Che cos’è la vita senza | Una dose di qualcosa, una dipendenza?”): lo si fa attraverso una moderna ballata, sul ritmo di canzoni.
Dentro. Pensieri in ordine.
- Rispetto allo spazio al MoMA in cui ho visto la Ballad qualche mese fa, la sala, in Triennale, è troppo ampia e troppo poco buia. Le sedute troppo scomode. Servirebbe un cinemino più intimo, in cui o abbandonarsi alle lacrime (da soli o in due) o lanciarsi sguardi d’intesa con un vicino comprensivo. Qui si rimane troppo milanesi, troppo impettiti, troppo «in fermata» piuttosto che «in sosta» rispetto alla realtà che c’è di fuori.
- Le tracce audio non sono davvero “canzoni”: variano dagli sperimentalismi musicali di Yoko Ono alla Carmen di Maria Callas, da Nico e i Velvet Underground a Dean Martin, passando per l’Ennio Morricone de Il Buono, il brutto e il cattivo. Insomma, quel misto di high and low che è uno dei caratteri fondanti della civiltà occidentale postmoderna.
- Le fotografie, per quanto poco auliche, sono incredibilmente colte. Non si contano i richiami alla pittura antica, o alla fotografia d’alta scuola: da Raffaello e Michelangelo a Cartier Bresson, in filigrana si coglie un’educazione visiva sterminata, in cima a cui svetta la Tulsa di Larry Clark.
- In un periodo in cui la fotografia d’arte era rigorosamente in bianco e nero, i colori qui sono allucinati, saturati. Si sa che Nan per tutti gli anni ’80 avrebbe dovuto indossare degli occhiali, e non l’ha mai fatto. Il risultato sono delle immagini che funzionano per sintetismo di forma e colore. Spesso il flash crea le condizioni di fotografabilità di un mondo che altrimenti rimarrebbe avvolto nell’oscurità.
- Circa settecento immagini ci scorrono sotto gli occhi. Viene da pensare che la quantità importa più della qualità: ma è una frase-chiacchiere da bar. La verità è che nel mondo di oggi c’è anche chi fornisce qualità in quantità, ed è una chiave del successo: tanto quanto – non lo nego – la quantità e basta.
- I testi delle canzoni funzionano un po’ come lo scheletro narrativo della ballata, che abbina alle parole cantate le immagini scattate, con un letteralismo che in altre mani diventerebbe squallidamente antologico. Al martellamento di “Hit the Girl” corrispondono immagini di una violenza indicibile sulle donne. Ma le immagini non sono didascaliche rispetto al testo, né il contrario. Le immagini, nel collidere con musiche che, spesso, tutti noi conosciamo, si tuffano da subito in una rete di significati universali più ampia. Non c’è spazio per l’autobiografismo, né per il documentarismo: non stiamo vedendo le immagini della vita di Nan Goldin negli anni ’80, tra USA, UK ed Europa. Quel significato così personale è da subito polverizzato nell’universalità della musica.
- Negli spazi infinitesimali, liminali, tra le fotografie, c’è lo spazio per le vite che sono nostre, per le nostre proiezioni sentimentali. Non è come in un film, in cui nel continuum pressocché ininterrotto del girato non c’è spazio per noi (o almeno dobbiamo trovarcelo in altri modi). Qui, in quei pochi istanti dello scatto tra una diapositiva e l’altra, ogni pochissimi secondi, noi entriamo dentro lo slideshow.
- Spesso si ripete che le foto più belle sono quelle “rubate”. Qui sembrano più che altro regalate. Tornare con la mente al momento dello scatto delle foto di sesso è, in questo senso, chiarificatore. Non c’è nulla di porno, e non viene neanche per un momento il sospetto che l’intimità che viene spiegata dalle fotografie sia finta, artata, costruita, affettata. C’è, davanti a noi, qualcuno che sta avendo un orgasmo mentre una terza persona lo/la fotografa: evidentemente, tra i due (tre), ci deve essere un legame di intimità tale che nulla possa più sembrare finto, documentale. E in effetti, come racconta Nan, «non credo ci sia nessuno, tra le persone che sono entrate nella Ballad, con cui non abbia vissuto almeno per un po’».
- Sembra molto un libro, questo show, sfogliato ascoltando la musica. Nello stesso identico modo, il libro può raccontare storie lontane anni luce da noi: dai Ragazzi di vita di Pasolini all’Harry Potter della Rowling. Eppure, la nostra capacità di immedesimarci non viene mai meno, leggendo un’opera di qualità. Di solito, la forza dell’immagine impedisce l’immedesimazione completa: rimane sempre, in qualche misura, documento, per quanto commovente, altro da noi. Invece qui la musica, lo spazio tra una foto e l’altra, il buio che ci circonda, la narrazione continuata, creano un effetto-libro che ci fa entrare, partecipare a situazioni di vita che non sarebbero, normalmente, le nostre.
- In questo senso, solo chi non ha visto la Ballad, ma esclusivamente la sequenza delle foto che la compongono, o chi ha dei seri deficit emotivi, può pensare che l’opera sia la descrizione di un mondo di emarginati underground. Chiaramente Nan Goldin non intendeva dimostrare nulla su quel mondo: le foto sono scattate in un momento in cui, come dice lei «gli altri non esistevano»: lei e i suoi amici, sicuri di essere nel giusto, non si curavano affatto degli «straight», che erano e sono, di fatto, gli unici per cui (e da cui) Nan & friends erano reietti. Non è, la Ballad, una rivendicazione identitaria che, per definizione, esclude. È un racconto che aspira a farsi universale.
- L’edizione è diversa da quella che avevo visto qualche mese fa. Ogni versione ha delle sue particolarità: la fotografia non è affatto presa diretta sulla realtà. Qui diventa uno strumento per una “recollection in tranquillity” ogni volta diversa, ogni volta distorta: la fotografia come strumento di un ricordo che si modifica insieme al nostro modificarsi, al modificarsi della nostra personalità. Tutto si conclude, del resto, sulle note di Memories Are Made of This.
Fuori.
- C’è, in quest’opera, qualcosa della grande narrativa europea, un’idea di Bildungsroman: una storia particolare che si fa parabola universale. È una delle poche opere della contemporaneità che riesce a parlare a tutti, in modo tale che ognuno pianga per un motivo diverso nel vederla. Risorge, nel guardare Nan Goldin, la speranza che l’arte contemporanea non sia lettera morta per un pubblico alieno alle sofisticherie concettuali; che “postmoderno” non sia solo una condizione della saggistica ma dell’umanità.
- Tutto si conclude con la foto, su una porta, di due scheletri che si baciano. E con la dedica alla sorella di Nan, morta suicida giovanissima. Tantissime delle persone che animano quelle foto sono state falcidiate dall’AIDS appena le diapositive hanno iniziato a essere messe in fila una dopo l’altra. Alla fine se si parla di cose importanti, se si parla di rapporti umani, della difficoltà della dinamica elettrica che tiene insieme la coppia, della circolarità tra indipendenza e dipendenza dall’altro, di sesso, dell’essenzialità della morte per pensare alla vita; ecco, se si ha ancora il coraggio di parlare di queste cose, l’arte non è morta. E la speranza risorge che ogni nuovo linguaggio si possa piegare a fini artistici.
- Quando si realizza a che livello – altissimo – tutto questo viene sublimato in una potentissima allegoria visiva, conviene tacere, e tornare a vedere Nan Goldin’s Ballad of Sexual Dependency, di nuovo. E ancora. E ancora. Fino a farsi scoppiare gli occhi e il cuore.
Immagine di copertina: Self-portrait in kimono with Brian, NYC, 1983