Siamo già tutti cyborg attaccati alle tecnologie quali protesi del quotidiano e della memoria? Ma non è invece la nostra capacità di oblio a renderci unicamente irriducibili? Suggestioni e domande intorno alla mostra di Macuga ospitata da Fondazione Prada
Una grande sala piena di luce e di sfere che ricordano una costellazione, in mezzo ad esse un androide dai folti capelli neri e dalla folta barba, seduto su un gradino, vestito solo di un impermeabile trasparente e con i piedi incastrati in scarpe di schiuma espansa e di cartone. Si apre così To the Son of the Man who ate the Scroll, la mostra di Goshka Macuga alla fondazione Prada (ne abbiamo parlato qui) che nel titolo ricorda alcuni versetti della Bibbia: “Mi disse: «Figlio dell’uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele». […] Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele. Poi egli mi disse: «Figlio dell’uomo, va’, recati dagli Israeliti e riferisci loro le mie parole, poiché io non ti mando a un popolo dal linguaggio astruso e di lingua barbara, ma agli Israeliti […].Ecco io ti do una faccia tosta quanto la loro e una fronte dura quanto la loro fronte. Come diamante, più dura della selce ho reso la tua fronte. Non li temere, non impaurirti davanti a loro; sono una genìa di ribelli» “. (Ezechiele, 3,1-3,9). Questo richiamo biblico esprime già molti dei temi presenti nella mostra – il linguaggio, il sapere, la possibilità di tramandare, l’essere figlio dell’uomo – e l’androide gli fa da contraltare con alcune domande: ha ancora senso dirsi “figli dell’uomo” di fronte ad un robot con le nostre stesse fattezze? Siamo già postumani? O lo saremo presto nell’intersezione con le tecnologie?
L’androide parla, ma soprattutto gesticola, con lunghe mani sinuose, e questo, forse, è il suo tratto più umano, che confonde e disorienta. L’androide parla con frasi non sue, alternando la stella danzante di Nietzsche e i bastioni di Orione di Blade Runner, in un monologo che sembra sempre familiare e sempre estraneo, pieno di frammenti riconoscibili – e sarebbe interessante scoprire cosa riconoscono i diversi visitatori – ma di cui non si riconosce il senso. L’androide appare quasi consapevole di questa mancanza di senso e ci dice: “per chi conservo questa conoscenza non è più chiaro”, quasi a chiedersi se la conoscenza umana possa avere senso in un mondo di androidi a nostra immagine e somiglianza. L’androide cita anche Judith Butler quando declama: “Il genere è una sorta di imitazione per cui non esiste un originale […], che produce la nozione stessa di originale come effetto e conseguenza dell’imitazione stessa”, e lì, di fronte a lui che parla e gesticola, non si può fare a meno di pensare che l’umano, in fondo, non è altro che questa imitazione senza originale, costruita in concatenazioni di memorie e saperi condivisi che creano quell’originale che ogni volta imitano. Macuga sembra suggerirci l’idea che l’umano sia una performance che si costruisce grazie alla memoria di essere esseri umani e sembra chiederci: cosa succede se affidiamo questa memoria a delle macchine?
La seconda sala, infatti, ripercorre una strana storia della conoscenza umana, intitolata “Before the Beginnign and After the End”, squadernata su tavoli ricoperti di rotoli decorati da disegni realizzati da alcune macchine, che continuano a funzionare e a riprodurre segni. Questo percorso della memoria si apre con un sigillo cilindrico proveniente dalla Mesopotamia che riproduce il sistema solare: proprio le costellazioni sono un altro dei temi ricorrenti della mostra, a simboleggiare uno dei modi di costruzione del sapere umano, che procede per sistemi e che mira a comprendere l’universo. In questa sala si attraversano immagini di distruzione, ma anche metodi di conservazione, dalla tassonomia agli almanacchi, passando per l’archeologia. E ancora una volta è la tecnologia a fare da specchio a tutto questo, dimostrandosi capace di imitare l’umano anche nell’espressione artistica.
Le costellazioni dominano anche il terzo spazio, intitolato “International Institute of Intellectual Co-operation”, in cui le teste di alcuni pensatori e pensatrici sono legate insieme da stecche di bronzo a formare quelle che sembrano, appunto, costellazioni, o atomi, o rizomi, o giochi di bambini. Si tratta di un percorso che parte dalla memoria artificiale (costellazione che unisce Leibniz ad Ada Lovelace) e arriva alla fine del tempo (in cui troviamo di nuovo Leibniz, ma accompagnato da Giordano Bruno e Newton) attraversando Freud, Foucault, Pico della Mirandola, Frankestein, Olympe de Gouges e Marx, raccolti tra il transumanesimo, la fine della storia e quella dell’uomo – significativamente espresso dalla parola Man, che lega la fine dell’umano alla fine della sua identificazione con un astratto maschio (e potremmo aggiungere bianco ed etero). Queste teste legate tra loro sembrano ricordarci che sono umane le menti e i corpi che hanno immaginato e costruito le tecnologie, che non possono che recare l’impronta dei loro creatori.
Infine, l’ultimo spazio ci accoglie in mezzo alle opere della fondazione Prada, ricostruendo uno studio che nei week-end accoglie delle letture in esperanto, a testimoniare il fallimento di un linguaggio universale artificiale che potesse trasmettere una cultura universale, una sola immagine dell’umano, pur nutrita delle differenze linguistiche. Ma forse testimonia anche il fallimento di una tecnologia capace veramente di trasformare l’umano: al termine del viaggio nella mostra di Macuga, infatti, rimane la sensazione che il postumano sia tanto, troppo umano. L’androide, in fondo, non è altro che una copia di un uomo, di cui immagazzina tutta la memoria, ma del quale non può riprodurre l’oblio, l’arte di dimenticare che permette alla memoria umana di funzionare come una matita, che sottolinea quello che più rimane impresso, da ricordare e trasmettere. Se è vero che siamo, già ora, tutte e tutti un po’ cyborg, attaccati alle nostre protesi tecnologiche fatte di telefoni, computer, tablet e hard disk in cui immagazzinare ciò che siamo e ciò che siamo stati, è anche vero che quello che ci fa restare umani non è la memoria ma l’oblio imprevedibile che delinea le nostre unicità e che continua a renderci una “genìa di ribelli”.