Un nuovo disco, un tour. Paul Mc Cartney, alla soglia degli 80, è tornato. E sventola la bandiera dell’Ucraina anche per noi
Paul McCartney? Guardalo lì, alla soglia degli ottant’anni – li compie il 18 giugno – che sventola la bandiera ucraina sui palchi di mezza America nella passerella mondiale nuova di pacca. Got Back Tour si intitola, il tour del rieccolo, questa nuova sortita nel vasto mondo, ma andarsene non se n’era mai andato, non è da lui. Tappato a casa nel periodo buio del lockdown, ne ha approfittato per confezionare l’ennesimo disco, McCartney III, il diciannovesimo da solista, suonando tutti gli strumenti. Già, perché lo straripante sir Paul, a tacere del resto, è anche polistrumentista: oltre al basso (nella classifica di Rolling Stone è terzo fra i grandi di tutti i tempi, e undicesimo fra i cantanti dopo Lennon che è quinto ma prima di Mick Jagger che è sedicesimo), suona anche chitarra mandolino e ukulele, pianoforte clavinet e tastiere, organo e mellotron, batteria e contrabbasso, flauto e tromba.
McCartney ancora in tour, dunque. Ma come fa, chi glielo fa fare, perché non si riposa? Di nuovi guadagni non avrebbe gran bisogno (con un patrimonio stimato attorno ai due miliardi di dollari è il più ricco di sempre tra i musicisti) e quello che aveva da dire l’ha detto e ripetuto sino allo sfinimento, oltretutto la voce comincia a non esserci più tanto.
Orgoglio, scaramanzia, esuberanza. A voler ridurre tutto all’osso, si tratta di questo. Della voglia di esserci, sempre e comunque. Per dimostrare di non essere secondo a nessuno (la competizione di una vita continuata post mortem, affettuosa ma a lungo aspra e conflittuale, con il fratello coltello John Lennon) e per esorcizzare lo spettro, dopo il decennio magico dei Beatles, di essere un reduce o un pensionato d’oro.
Iperattivo, comunque, McCartney lo è stato sempre. E curioso di tutto, e dotato di una grande facilità nel comporre. L’eclettismo, che dono e che guaio: se riesci a rifinire una canzone in mezz’ora e le musiche ti piacciono tutte ma proprio tutte (il sarcastico Lennon, che aveva una buona parola per tutti, lo accusava spesso di fare “musica della nonna”) sei sempre a due passi dal sublime, ma anche pericolosamente vicino al baratro del kitsch. Nel catalogo dei Beatles ci sono esempi dell’uno e dell’altro: la meravigliosa Eleanor Rigby ma anche la stupidotta Ob-la-di ob-la-da. Tutte e due farina del suo sacco.
La storia comincia a Liverpool, dove McCartney nasce sotto i bombardamenti tedeschi che spianano mezza città. Figlio dell’infermiera Mary che morirà quando lui ha quattordici anni in seguito a una mastectomia (è lei la mother Mary che gli appare in sogno “speaking words of wisdom” in Let it be) e di Jim che lavora alla Borsa del Cotone e fa musica da dilettante suonando tromba e pianoforte. Una famiglia normale, con i figli seguiti e incoraggiati: Jim che porta Paul ai concerti delle bande, che gli regala una tromba (e lui la scambia subito con una chitarra, al basso passerà soltanto anni dopo e per necessità: si tratta di sostituire Stu Sutcliffe che ha abbandonato gli embrionali Beatles) e gli insegna, quando ascoltano la radio, a riconoscere i vari strumenti.
Una famiglia di decoroso ceto medio, in una Liverpool affamata e piena di vite alla deriva. Per dire, John Lennon è stato abbandonato dal padre quasi in fasce, dalla madre poco dopo, l’ha cresciuto la rigida zia Mimi che non vorrebbe fargli frequentare Paul “perché è povero” (il padre di Paul dal canto suo vorrebbe scoraggiare l’amicizia con il turbolento John “perché ti metterà nei pasticci”). E Ringo Starr, anche lui cresciuto senza padre, ha passato metà dell’infanzia negli ospedali, prima un’operazione di appendicite che lo ha portato in coma e dopo una tubercolosi. Decoroso come Paul, ma più povero di lui, il timido e implume George Harrison è figlio di un conducente di autobus.
I Beatles che tra il 1962 e il 1970 conquisteranno il mondo, dopo la gavetta sfiancante negli scantinati di Liverpool, il mitico Cavern Club, e nei locali della zona a luci rosse di Amburgo dove il deragliante Lennon, ubriaco, dalla finestra della soffitta in cui alloggiano piscia in testa alle suore che passano per strada, sono quattro proletari. E quattro “terroni”, perché l’equivalente del nostro meridione, in quell’Inghilterra che raziona i generi alimentari fino a metà degli anni ’50, è il nord. Quando sbarcano a Londra per incidere il primo 45 giri per la Parlophone sussidiaria della Emi (Love me do e P. S. I love you) sono dei provinciali impacciati e aggressivi, che però imparano presto a comportarsi bene e a compiacere il pubblico delle adolescenti. Sono, per lo storico John McMillian che ha dedicato un libro alla loro rivalità con i Rolling Stones, una delle grandi bufale dei Sixties (in Italia lo ha pubblicato Laterza), quattro teppisti che vengono reinventati dal marketing personcine ammodo, con i capelli a caschetto e le giacchettine senza collo, mentre gli Stones sono quattro gentlemen – famiglie della media borghesia, studi universitari – che il loro manager Andrew Loog Oldham costruisce nipotini di Satana: blues, sfrontatezza, atteggiamenti oltraggiosi. E droghe, certo, ma ne fanno uso anche i Beatles. Insomma, i Beatles che vogliono tenerti per mano e gli Stones che vogliono mettere a ferro e a fuoco la città. Non è vero, non è proprio così, ma ci cascano tutti.
Comunque, gli Stones che si metteranno a scrivere qualche tempo dopo i Beatles – ci provano eccome, i “glimmer twins” Jagger e Richards, ma sulle prime gli vengono fuori canzoncine di buccia dolce come As tears go by che destinano a Marianne Faithfull, nel timore di alienarsi i fan – sono, colpa anche di quella costruzione in odore di zolfo, soltanto un quartiere malfamato del rock, mentre i Beatles che incorporano tante cose nel loro canzoniere diventano presto una città.
Gli architetti della città sono, lo attestano le 160 canzoni delle 188 che formano il loro repertorio, Lennon-McCartney. Coautori fifty-fifty, lo hanno stabilito da adolescenti e finché i Beatles saranno in vita terranno fede al patto, anche se non è detto che scrivano sempre assieme. Gli esperti e gli impallinati hanno passato al setaccio, una per una, quelle canzoni. Per concludere che soltanto diciassette sono composizioni paritarie, mentre 74 vanno ricondotte a Lennon (per esempio Strawberry fields forever e Tomorrow never knows, ma anche l’insulsa All you need is love trasmessa in mondovisione) e 69 a McCartney. E che canzoni, l’elenco sarà anche noioso ma è d’obbligo per levare a Paul questa fama persistente di brutto anatroccolo di fronte al genio e sregolatezza di Lennon: And I love her, Yesterday (infatti la incide da solo con un quartetto d’archi), Michelle, I’m looking through you, We can work it out, Eleanor Rigby, Here there and everywhere, il capolavoro chirurgico sulla fine di un amore che è For no one, Penny Lane. E ancora Yellow submarine, The fool on the hill, Lady Madonna, Blackbird, Hey Jude, Let it be, Get back. Ballad per lo più, Paul è uno dei grandi melodisti della canzone popolare, ma a volte brani di rock teso e sgolato (Back in the USSR) e di insospettata ruvidezza come quella Helter skelter scritta per scommessa in un paio d’ore quando gli hanno detto che gli Who sono i campioni dello hard rock. Scommettete che scrivo più duro di loro, che ci vuole? è la sua risposta.
McCartney il prolifico, MaCartney il comandino. È lui a tenere in piedi i Beatles che dopo la morte precoce del loro manager Brian Epstein rischiano di sbandare, è lui che trova le idee per gli album che li faranno grandi e adulti, fino ad Abbey Road e a Let it be. Per esempio il loro capolavoro Sgt. Pepper’s lonely hearts club band: è lui che si inventa l’idea-cornice della band vittoriana, è lui che di fronte ai borbottii di Lennon scrive la maggior parte dei brani (la trascinante title track, Getting better, Fixing a hole, la bellissima e commovente She’s leaving home, la nostalgica When I’m sixty four che aveva composto a sedici anni: musica della nonna, appunto, con addirittura un clarinetto fra gli strumenti). Ma quel melodismo e quell’allargare i confini – gli archi, il pianoforte, le trombe, i loop, i mille trucchi inventivi in sala di registrazione – apriranno la strada, a pensarci bene, a quel progressive che cercherà di scrollarsi di dosso le influenze americane. A un rock forte anche di radici inglesi e latine e classiche.
McCartney con i piedi per terra, saldamente ancorato alla Liverpool dell’infanzia mentre Lennon e Harrison cercano di prenderne le distanze, con un certo snobismo, inventandosi sbornie mistiche in salsa indiana e viaggi psichedelico-politici (ma il Lennon radical dei primi ’70 è lo stesso che in Revolution aveva preso le distanze in maniera sprezzante dai movimenti giovanili e che a metà dei ’70, smaltita l’eccitazione militante, tornerà a casa per “ricominciare”). Se si confrontano due canzoni dedicate a luoghi della loro città natale come Penny Lane (McCartney) e Strawberry fields (Lennon) le differenze saltano immediatamente agli occhi. Nella prima il quadretto affettuoso, da Dickens bozzettista, di un quartiere con il barbiere, la bambinaia che vende papaveri, il pompiere con il ritratto della regina in tasca, nella seconda il trip onirico dove “nothing is real”. Grandi canzoni tutte e due, ma che viaggiano su binari diversi.
Ma una band come i Beatles, dove più che mai la somma è maggiore degli addendi, tiene insieme tutto. E anche McCartney trova, al tempo stesso, esaltata la voglia di sperimentare e tenute a bada le sdolcinature. Prendiamo per esempio A day in the life, capolavoro di Sgt. Pepper che John e Paul scrivono a quattro mani. Si parte (chitarra e pianoforte) con Lennon che racconta di un uomo che muore in un incidente d’auto e di un film in cui gli inglesi vincono la guerra. McCartney riavvia la canzone portandola a un concitato quadretto quotidiano che giustifica e riagguanta anche l’incipit: un uomo si sveglia, si pettina e beve un caffè in fretta, prende al volo l’autobus perché è in ritardo e, arrivato al lavoro, si immerge in una fantasticheria. Riprende il tono onirico e Lennon racconta di quattromila buche nelle strade del Lancashire. In mezzo, a fare da collante tra il sogno e la veglia, c’è una trovata vertiginosa del “conformista” McCartney: un’orchestra di quaranta elementi che partono ognuno dalla nota più bassa del loro strumento e salgono, in un crescendo orgiastico, fino alla nota più alta.
O prendiamo She’s leaving home, una ragazza che abbandona di soppiatto la casa paterna lasciando un bigliettino: Lennon introduce, contrappunto alla fuga, i commenti desolati dei genitori. Prendiamo infine Eleanor Rigby, quella piccola “terra desolata” con la zitella che spazza da terra il riso di un matrimonio e muore sola, come senza compagnia è il prete McKenzie che scrive un sermone che nessuno ascolterà. Qui Lennon aggiunge quello che McCartney chiamerà il “coro greco”: il ritornello “Ah look at all the lonely people”. E Ringo un piccolo particolare che stempera la cupezza: il prete che, dopo avere scritto il sermone, si rammenda i calzini.
Ecco, anche di queste piccole magie collettive sono fatti i Beatles. Che nel 1970 si scioglieranno: a darne l’annuncio, anche se la storia è finita da qualche tempo, è proprio Paul, il 10 aprile 1970. Il giorno dopo fonda la sua società personale, la MPL che con il tempo acquisirà i diritti di tremila canzoni (anche Les feuilles mortes e Stormy weather, anche la nostra Arrivederci Roma), la settimana dopo manda nei negozi il suo primo album. Riviste nel tempo le colpe di quello scioglimento (e riabilitata la “strega” Yoko Ono che per anni, con fantasia maschilista non infrequente nel rock, è stata vista come la sfasciafamiglie), le cause della separazione andranno addebitate, come nei casi di divorzio più canonici, all’incompatibilità di caratteri (la singolar tenzone dei galletti nel pollaio John e Paul, il risentimento di Harrison che sta emergendo come autore, lo stress di Ringo che non regge la rissa continua) e, follow the money, alle scelte di management e di gestione del patrimonio. I Beatles, dopo essersi gettati nell’avventura della Apple casa discografica, boutique, fucina di talenti e sperimentazioni che succhia milioni peggio di un’idrovora, hanno aggravato la situazione scegliendo come manager il più che disinvolto e vorace Allen Klein, un americano del New Jersey che ha già spennato i Rolling Stones. Paul, che è generoso ma attento al soldo, non ci sta e nel dicembre 1970, per sciogliersi da quella comunione dei beni, fa causa a Klein e ai partner. Ha ragione, nel 1973 anche gli altri ex Beatles getteranno a mare l’americano, ma intanto gli si è fatto il vuoto attorno e passeranno anni prima che i rapporti con gli amici dell’adolescenza ritornino civili.
Il post-Beatles è un problema per tutti e quattro. Sembra cavarsela artisticamente meglio Lennon (ma con pesanti problemi di dipendenza dall’eroina, con alcuni album sperimentali oggi inascoltabili e non poca melassa), Harrison ha una fiammata iniziale (All things must pass) ma poi si adagia su una rassicurante routine, mentre l’adorabile Ringo si limiterà a sfornare simpatici e inconsistenti album buoni al più per il karaoke. E McCartney? Procede come uno schiacciasassi, privo ormai di freni inibitori. Lasciamo parlare le cifre: dal 1970 a oggi 19 album di studio, 9 live, 4 raccolte, 2 EP, 111 singoli (anche una censuratissima Give back Ireland to the Irish del 1971, anche la cartolina scozzese Mull of Kyntire con tanto di cornamuse che con due milioni di copie sarà a lungo il campione dei singoli inglesi), 37 album video, 79 video musicali, una colonna sonora. Fortunati, fortunatissimi, anche quando la critica storce il naso: 60 dischi d’oro, 100 milioni di album venduti. E siccome non basta, non può bastare, al conto vanno aggiunti quattro album superflui di musica classica, quattro album quasi clandestini di musica elettronica (ma curiosi, oserei dire belli) fatti uscire con lo pseudonimo The Fireman, e un album di collage sonori. Più concerti e tour mondiali a cadenza quasi annuale. E tante buone cause assortite: i vari Live Aid, il vegetarianesimo, la battaglia animalista, quella contro le mine antiuomo e quella per cancellare il debito del Terzo Mondo. A volte con buoni sentimenti un po’ paraculi che diventano singoli di successo (Ebony and Ivory contro il razzismo, in duetto con Stevie Wonder).
Che cosa ne resta? Non troppo, a essere sinceri. Intendiamoci, McCartney è pur sempre un grande, anche quando sonnecchia o va di fretta, ed è uno straordinario performer, un animale da palcoscenico in grado di adattarsi a ogni partner e ad ogni contesto: provate a vederlo su YouTube mentre duetta con Springsteen (una strepitosa Twist and shout), quando a Hyde Park abbraccia il cinghialone Neil Young che trasforma A day in the life in un pezzo quasi punk, mentre a New York stupefatto come un redivivo Cary Grant si trova a prendere il posto del defunto Kurt Cobain negli improvvisati Nirvana di una sera (il pezzo che ne scaturisce, il tiratissimo Cut me some slack, vince un Grammy come miglior pezzo rock dell’anno), impassibile mentre si cimenta con la grammatica hip hop di Rihanna e Kanye West. Un uomo per tutte le stagioni: ecumenico, camaleonte, forse anche un po’ vampiro. Così nell’abbondante discografia, fatta di album tutti dignitosi ma che, quasi tutti, non viene voglia di riascoltare, è facile individuare le poche perle. Live soprattutto, che rileggono anche il lascito dei Fab Four: Band on the run (1973), Wings over America (1977) e Tripping the live fantastic (1990). Ma anche una manciata di album di studio, riusciti soprattutto quando Macca trova un partner che lo spinge a collaborare e competere (Flowers in the dirt del 1989 con Elvis Costello) o un produttore che gli tiene la briglia corta (Flaming pie del 1997 con Jeff Lynne e George Martin che governava i Beatles ad Abbey Road e Chaos and creation in the backyard del 2005 con Nigel Godrich che ha costruito il suono dei Radiohead).
Resta il fatto che i colleghi e, quel che più conta, i milioni che accorrono ai suoi concerti o comprano i suoi dischi, continuano a volergli bene. Nostalgia forse, ma anche ammirazione per il lavoro di una vita e per la gioiosa caparbietà con cui lo ha affrontato e lo affronta. E allora buon compleanno Paul McCartney, sventola quella bandiera dell’Ucraina anche per noi. E canta ancora “Yesterday, all my troubles seemed so far away” perché sì, ieri era tutto più facile.