Jane legge, e soprattutto storie di avventura, che nel 1924 non sono certo letture per signora. Per di più, Jane è una cameriera, ed è orfana. Ma è sveglia e graziosa: per questo il padrone di casa le ha accordato il permesso di servirsi della biblioteca. Così Jane, che tutto ha già perso dalla vita, si procura altri mondi, altri modi di pensare. Nella letteratura, Jane impara che si può osare: così, si approprierà della sua vita.
Breve, intenso e vivido, “Un giorno di festa” è un gioiello di Graham Swift, pubblicato da Neri Pozza con la traduzione di Luca Briasco.
Storia d’amore e di riscatto. Affresco sociale spietato. Racconto di opulenza e di controllo. Romanzo di formazione ribelle e struggente. Tutto, in poco più di cento pagine nitide come l’arco dell’esistenza tracciata dalla vita di Jane, splendida protagonista di Un giorno di festa (Neri Pozza).
Entrare dentro il libro di Graham Swift – che in inglese si intitola, Mothering Sunday – è un po’ come farsi un giro per villa Necchi Campiglio; mettere, cioè, i piedi nella realtà quotidiana di quello che è stato il mondo dei primi decenni del Novecento in uno spazio esistenziale con pertinenze adiacenti, gerarchicamente separate persino nella percorribilità dei luoghi: le sale, la luce, gli scaloni ad uso esclusivo dei padroni; le intercapedini, le cucine, i campanelli a cui (lestamente) rispondere, invece, per la servitù, che agli ambienti della bellezza ha accesso solo per questioni funzionali, come pulire o manutenere o servire (ma sempre tenendosi sui lati delle stanze, mai attraversandole, soprattutto in presenza dei proprietari e dei loro ospiti).
In quella studiata separazione architettonica si muove il mondo (e dentro al mondo l’Inghilterra) del 1924: classismo di ferro e determinismo sociale, pervasi da quella certa violenza dell’impadronirsi del tempo altrui al prezzo di un salario, di disporne sorridendo con deferenza, di vietare gli spazi da occupare – perché persino per sedersi in un giardino vuoto nella propria giornata libera si prevede una necessaria richiesta di permesso.
Nella dismisura relazionale di quel mondo, però, la questione immateriale è la più sottile, e riguarda una particolare forma di possesso, ovvero quello della differenza di vocabolario: parole (molte) da ricchi, e altre (poche) da poveri. Rigorosamente divise.
“Una parola non era una cosa, no. Né una cosa era una parola. Eppure, in qualche modo, le due… cose… diventavano inseparabili. Tutto era forse una gigantesca fabbricazione? Le parole erano come una pelle invisibile, che avvolgeva il mondo rendendolo reale. D’altro canto, non si poteva in alcun modo sostenere che il mondo sarebbe venuto meno o sarebbe stato meno reale, in assenza delle parole che si usavano per definirlo. Tutt’al più si sarebbe potuto affermare che le cose consacrassero le parole utilizzate per distinguerle una dall’altra, e che le parole potessero a loro volta consacrare ogni cosa”.
Jane Fairchild, orfana e cameriera nella grande casa della famiglia Niven, ha intuito a sufficienza questo potere invisibile per capire che, per sopravvivere, saper dire le cose e saperle comprendere significa avere una possibilità di scarto nei confronti del proprio destino. L’accesso alla biblioteca che il padrone le ha concesso è il viatico per una resistenza interiore che intuisce appena: all’inizio è un istintivo nutrirsi di storie non proprie e imparare parole di altri mondi.
Ma, di fatto, nel tempo e inconsapevolmente, leggere la rende sé stessa – in questo, forse, grazie al peso che le parole avranno nella sua vita, Mothering Sunday può anche alludere alla nascita di una nuova Jane, dentro e all’indomani di quella domenica consacrata alla maternità, regalando a questo romanzo la cornice di un racconto di formazione e di ribellione.
Proprio leggendo, infatti, la ragazza apprende la simulazione di quel mondo che la vorrebbe sempre comandata e controllata, e a cui impara a restituire dissimulazione. Il che non sarà secondario negli eventi di quel giorno fatale.
Cosa succede, dunque, in quella data?
C’è, innanzitutto, un coronamento.
Senza nulla rovinare alla lettura, serve ripercorrere i sette anni nei quali, di nascosto, Jane, insieme al vocabolario (che non può naturalmente utilizzare alla presenza dei suoi datori di lavoro) si prende anche l’amore: quello per Paul Sheringham – ricco, bello, inarrivabile. E promesso sposo, neanche a dirlo, di una ragazza dell’alta società londinese.
In un tempo in cui il desiderio carnale era considerato malattia, peccato e reato, e quello sessuale femminile neppure concepito (e, anzi, nell’eventualità di una manifestazione, punito), che sotto il naso della migliore società una ragazza orfana intrattenesse un amore clandestino con uno dei più ambiti partiti sulla piazza, in reciproco piacere e senza nutrire alcun senso di colpa, non è solo una questione di pericolo.
Perché, certo, c’è il fascino della distanza, lo sbilanciamento sociale, ma Jane non patisce il rischio della sindrome da Cenerentola: chi seduce chi? Chi invita chi? Chi esplora chi? Molte volte viene da chiederselo mentre Graham Swift rivela quali sono le strade più tortuose e nascoste del pensiero della sua protagonista: che avrebbe tutte le carte in regola, dickensianamente, per soccombere; e invece decide che no, prima che il destino provi a metterla al muro, meglio giocare d’anticipo, e stracciare la carta della vittima. Poiché la seduzione è conoscenza (anche di sé), e la conoscenza è vita.
Libera per il dolore fondativo di essere stata privata di una dimensione familiare, Jane decide per sé: nelle intercapedini, nel rischio, nel buio; e in una solitudine da cui ha strappato a viva forza la recriminazione e il compianto.
Così, senza saperlo, si allena al controllo.
Il momento delle nozze tra Paul e Emma sta ormai arrivando quando, il giorno della Festa della Mamma, si tiene il tradizionale picnic tra famiglie benestanti nel corso del quale i dettagli dell’evento saranno discussi. A tutta la servitù viene concesso un giorno di ferie.
Mentre Jane (che, essendo orfana, non ha una famiglia alla quale tornare) si prepara a passare la giornata da sola a leggere, Paul a sorpresa la chiama a sé: con la scusa di certe cose da studiare diserterà il picnic e ritarderà l’incontro con la fidanzata ufficiale.
La sua casa è libera, e per la prima volta vuole poter amare Jane nella sua camera.
E questo è l’arco temporale di questa storia, che in una manciata di ore travolge e cambia le vite di tutti: l’accesso alle sale vuote, agli specchi che restituiscono la propria presenza in una cornice vietata, alle scalinate, alla biancheria di una stanza normalmente inaccessibile è l’enorme tesoro che proietterà Jane oltre. Per sempre.
“Era come se l’intera giornata avesse invertito il proprio corso, e tutto quel che si stava lasciando alle spalle non fosse rimasto racchiuso e murato dentro quella casa, ma si fosse riversato fuori, fondendosi con l’aria che respirava. Non sarebbe mai riuscita a spiegarla, ma la sensazione che provava sarebbe rimasta identica anche quando, di lì a poco, avrebbe scoperto che quella giornata era davvero cambiata, e nel modo più drammatico. Come poteva la vita essere al tempo stesso così crudele e così magnanima?”