La Grande Madre, la mostra curata da Gioni è un’indagine su maternità e femminilità. E lascia molte domande aperte. Soprattutto: chi è l’artista, qui dentro?
Non ho tanto capito perché, ma a La Grande Madre, la mostra più cool del momento, curata da Massimiliano Gioni, in veste di direttore artistico della Fondazione Trussardi, per gli spazi di Palazzo Reale (lontano da Expo), è pieno di mamme con bambini piccoli.
Sarà che era domenica, sarà che fuori il tempo non invitava ad amene passeggiate vicino al trenino del parco di Porta Venezia, ma intanto io sono incappato in dieci mamme con bambini sostanzialmente neonati che andavano a vedere la mostra. Ho pensato di essere nel mezzo di una performance. Invece no: la performance (di Roman Ondák) stava un po’ più in là, dove, sotto l’occhio onnipresente di Instagram, ogni giorno una mamma insegna al suo bambino a camminare – #TeachingToWalk. Evidentemente fare una mostra sulla maternità ha un effetto carta-moschicida sulle mamme del circondario. Credo che questo, sì, faccia parte della mostra, perché ci fa riflettere sul richiamo ancestrale della maternità: un bisogno di comprensione, eternamente frustrato, di quella che pensiamo essere la scaturigine di tutti i nostri successi ed insuccessi futuri: la mamma.
In breve, la mostra propone una serie di riflessioni sul ruolo della donna e della madre in una evoluzione diacronica lungo gli assi portanti della storia dell’arte e della storia, ma si apre ad intersezioni sulla paternità, la violenza, la femminilità, la sorellanza, il potere, il rapporto con lo Stato, la Legge e la tradizione. A farla da padrona, giustamente, sono le donne artiste: molti i nomi poco noti al grande pubblico, soprattutto di grandi artiste della prima metà del Novecento, relegate – da una critica maschilista – a ruoli ancillari rispetto ai noti maschietti. Non avrebbe alcun senso fare qui una selezione, tra le circa quattrocento opere esposte: sarebbe fare un’ingiustizia agli scartati. Quello che ne esce, piuttosto, nel complesso, è una visione composita della maternità e della figliolanza, fatta di dolcezza, amore e tenerezza, ma anche di sopruso, violenza, frustrazione, depressione, istinti infanticidi, dolore, abbandono. E lo stesso dicasi per la visione della donna tout court: non solo potnia, ma anche macchina da nutrimento e da piacere, creatura mistica, strega, essere umano con dei diritti, delle voglie, delle pretese. Non c’è, insomma, una donna, una maternità, una figliolanza. L’obiettivo, a tratti, sembra proprio quello di sondare enciclopedicamente tutte le possibilità del reale, tutte le possibilità del rapporto madre-figlio, moglie-marito, donna-potere, donna-arte. Tutto si piega a questo fine ultimo, a questa utopia enciclopedica, al punto che le opere esposte spesso non sono originali: sono ristampe, fotografie, riproduzioni. Perché il fine non è quello di esporre delle opere, di appendere al muro opere portatrici di un’aura, ma di esplorare un concetto. La lettura del libro, insomma, piuttosto che la visita al museo sembra essere il riferimento culturale della mostra.
La cui forza, infatti, sta nello spostamento radicale del portato artistico: non più nelle opere, ma nel lavoro del curatore, che diventa esso stesso performance, intriso di senso aurale. E non a caso le mostre di Gioni hanno una cifra stilistica riconoscibile. Si parla – e l’abbiamo appena detto – molto spesso di enciclopedismo: quest’idea enciclopedica, prettamente maschile, con questa mostra sembra piuttosto declinarsi nei termini più femminili della ricerca dei rapporti, più che nell’elenco delle cose. La volontà – come nella straordinaria opera di Nicholas Nixon, The Brown Sisters: una fotografia all’anno per quattro sorelle, e ne esce un ritratto della Storia – pare cioè essere quella di ricercare i fili e le connessioni della storia dell’arte, le sorellanze e le amicizie tra gli artisti (e le artiste), piuttosto che i conflitti tra maestro e allievo (ovvero, tra padre e figlio). Un tracciato orizzontale, una rete, piuttosto che un albero genealogico verticale. Il fatto che questa concezione non sia più relegata agli spazi sperimentali delle fondazioni private e delle biennali, ma assurga ad essere messa in opera a Palazzo Reale, cioè al centro (almeno teorico) dell’ufficialità culturale di una Milano ora a sua volta al centro del mondo grazie a Expo, pare – da un punto di vista di storia della cultura – estremamente significativo.
C’è un rischio. Ed è quello di distorcere, nel delineare questi net-works, il senso originale delle opere. Ma questo è il rischio costante del fare storia dell’arte, e il modello edipico che ha sempre voluto vedere in Raffaello il figlio che uccide il maestro, Perugino, insito nell’idea tradizionale – rafforzata dall’avvento della psicanalisi – di una storia dell’arte come conflitto tra padri e figli, forse ha distorto i sensi originali molto più di quanto possa fare questo nuovo modello.
La Grande Madre, a cura di Massimiliano Gioni, Palazzo Reale, fino al 15 novembre.
Immagine di copertina: Anna Maria Maiolino, Por um Fio, 1976. Courtesy Fondazione Nicola Trussardi, Milan
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