La scrisse José Afonso, giovane cantautore di famiglia clerico-fascista, e accompagnò la caduta della dittatura portoghese. Era il 25 aprile del 1974 quando sulle note di “Grandola” un manipolo di giovani colonnelli di sinistra diede il via alla rivolta dei garofani
Può una canzone accompagnare una rivoluzione, una guerra vittoriosa contro l’invasore? È accaduto. Con La marsigliese che nel 1795 celebrò la rivoluzione francese sotto attacco ed ebbe anche la curiosa sorte di diventare inno hollywoodiano contro il nazismo (ricordate Humphrey Bogart che in Casablanca ordina agli orchestrali del suo bar, per silenziare gli ufficiali tedeschi che cantano le loro immondizie minacciose: «Suonate La marsigliese. Suonatela!»?). Con Bella ciao, antico canto delle mondine divenuto inno della Resistenza italiana e oggi intonato dalle giovani donne iraniane contro gli ayatollah e le squadracce che impongono il velo. Prima del 25 aprile 1974, però, mai una canzone era stata il segnale per abbattere un regime. Accadde in Portogallo, quando il Movimento delle Forze Armate cancellò in ventiquattr’ore, senza spargimento di sangue o quasi – la polizia politica del salazarismo, la Pide, come ultimo atto del suo feroce mestiere fece cinque morti e 45 feriti – il fascismo più longevo d’Europa.
Il Portogallo, sotto il tallone dei militari dal 1926, era diventato nel 1932 “Estado Novo” corporativista retto dal “piccolo contabile” (copyright di Fernando Pessoa) Antonio De Oliveira Salazar, che si spacciava per economista. Sciolti i partiti, repressi i sindacati, piene le galere, sul paese più povero d’Europa, che aveva evitato il coinvolgimento nella seconda guerra mondiale con una neutralità di facciata ma senza dissimulare l’ammirazione per Mussolini e Hitler, era calata una cappa di terrore, stagnazione e ulteriore miseria.
Gli oppositori erano imprigionati o in esilio, e se erano liberi li imprigionava il silenzio. Il grande Pessoa, conservatore all’inglese ma non fascista, conservava nel suo “baule pieno di gente” (copyright di Antonio Tabucchi) appunti, invettive e versi contro il regime. Una satira, l’ha pubblicata nel 2022 Quodlibet raccogliendo gli scritti del poeta Sul fascismo, la dittatura militare e Salazar, fa così:
Questo signor Salazar / è fatto di sal e azar (mala sorte, ndr). / L’acqua scioglie il sale / e lascia solo l’azar, è naturale. / Oh, diavolo cornuto! / Pare abbia già piovuto.
Negli anni ‘60 un impero coloniale anacronistico quando i francesi e gli inglesi concedevano l’indipendenza agli ex dominii, e dispendioso al punto di assorbire un quarto del bilancio statale, accentuò la crisi del regime. Per la prima volta, ufficiali e soldati mandati in Angola o in Mozambico, in Guinea Bissau o a Capo Verde, solidarizzavano con i movimenti indipendentisti.
Con le aspirazioni dei colonizzati simpatizzava anche José Afonso (1929-1987), autore della canzone che avrebbe rovesciato la dittatura.
Nato in una famiglia di amministratori coloniali di aperte simpatie hitleriane, cresciuto in Africa con i genitori e in patria con parenti clerico-fascisti, universitario a Coimbra, il giovane Afonso trovò naturale collocarsi all’opposizione. Fadista delicato e autore di canzoni urticanti (Os vampiros del 1958, con la trasparente metafora dei vampiri che succhiano il sangue del popolo), venne incarcerato, angariato dalla polizia politica a più riprese e, professore ai licei, cacciato dall’insegnamento.
Nel 1964 José Afonso tenne un concerto a Grandola, cittadina dell’Alentejo nel sud del Portogallo. Era ospite della Società musicale fraternità operaia grandolese, una società di mutuo soccorso di operai e contadini attiva dagli anni ‘50 e regolarmente sotto il mirino del regime. Con lui c’era un altro grande, il prodigioso chitarrista Carlos Paredes che Charlie Haden avrebbe paragonato per inventiva a Ornette Coleman (andatevi ad ascoltare il suo virtuosistico Divertimento o il suo languido e splendido Verdes anos), comunista che i fascisti avevano privato del lavoro all’ospedale di Lisbona e incarcerato per un anno e mezzo.
Afonso, impressionato dalla dignità e dalla fierezza dei suoi ospiti, compose per loro una canzone, Grandola vila morena, sul modo dei canti corali a cappella della regione. Le parole – la traduzione che ho un po’ modificato è di Riccardo Duranti – fanno così:
Grandola, città bruna / terra di fratellanza / è il popolo che comanda / dentro di te, o città. / Dentro di te, o città / è il popolo che comanda / terra di fratellanza, / Grandola città bruna. / A ogni angolo un amico, / su ogni volto l’uguaglianza / Grandola città bruna / terra di fratellanza. / Grandola città bruna / su ogni volto l’uguaglianza, / è il popolo che comanda. / E all’ombra d’una sughera / che non sa più quanti anni ha / giurai d’aver per compagna, / Grandola, la tua volontà. / Grandola, la tua volontà / giurai d’aver per compagna / all’ombra d’una sughera / che non sa più quanti anni ha.
La trasmissione della canzone venne vietata, Afonso veniva convocato dalla polizia ogni volta che la eseguiva in pubblico. E ai giornali venne fatto il divieto di citare il cantante, i più coraggiosi lo scrivevano all’incontrario: così, per qualche anno, si seppe che in Portogallo era attivo il misterioso cantante Esoj Osnofa. Però, curiosamente, il 45 giri e l’album che la conteneva (Cantigas do maio del 1971, un capolavoro) continuarono a circolare. E quando il 29 marzo 1974 al teatro Coliseu di Lisbona si tenne il primo incontro della nuova canzone portoghese, con la polizia che invano tentò di bloccare gli oltre settemila spettatori, Grandola vila morena divenne la canzone cantata da tutti in faccia agli sbirri.
I giovani ufficiali di sinistra che preparavano il colpo di stato incruento che un mese dopo avrebbe riportato la democrazia in Portogallo scelsero Grandola come segnale dell’avvio della rivolta. La canzone venne trasmessa da Radio Renascença, l’emittente della curia portoghese, dopo che i responsabili della programmazione, riuniti per le decisioni finali davanti all’altar maggiore di una chiesa per sfuggire agli spioni, rintracciarono fortunosamente il disco che la conteneva. E andò in onda con un minuto di ritardo rispetto al tempo previsto perché l’annunciatore, bruscamente strattonato, si attardava con la pubblicità.
Il giorno dopo i soldati con i garofani e i papaveri rossi infilati nelle canne dei fucili erano i padroni della piazza, Marcelo Caetano successore di Salazar era stato scortato a Madera da dove sarebbe partito per l’esilio brasiliano, e la democrazia aveva riaperto i battenti. Ad accorgersi in ritardo che la sua canzone la cantavano tutti ma proprio tutti, e che aveva dato il via alla rivoluzione, fu l’autore, felice ma in qualche modo stranito. Non si era accorto di nulla.
Da allora José Afonso ha potuto incidere regolarmente per dodici anni, prima di morire nel 1987 di sclerosi laterale amiotrofica, diventando un artista profondamente amato dai colleghi e da un vasto pubblico. Scopritelo, su YouTube e su Spotify ci sono parecchie sue canzoni di clamorosa bellezza. Una stella del “nuovo fado”, Cristina Branco, gli ha reso omaggio con un album perfetto, Abril. E Grandola è stata rifatta da molti: corali operaie e contadine, la grande Amalia Rodrigues e Joan Baez. È persino finita nella colonna sonora di una serie Netflix di grande successo, La casa di carta. Da noi l’hanno riproposta il gruppo di combat-folk Cantovivo e, in una versione intensa e pudicamente commovente, il fisarmonicista Daniele Di Bonaventura compagno di scorribande sonore di Paolo Fresu. Lo scorso anno, nel 39° anniversario della rivoluzione dei garofani, l’ha cantata in coro il Parlamento portoghese. Un atto scontato? Provate a chiedere a Giorgia (not on my mind) e a ‘Gnazio di intonare Bella ciao.
In copertina: Porto, 25 aprile 1983 (foto Henrique Matos)