Abbandoni, forzati e voluti: tutto ciò di cui si compone la normale esistenza umana. In “La vita gioca con me” (Mondadori) un nuovo, magistrale David Grossman.
Leggere Grossman è sgretolarsi. Nel suo scrivere la materialità e l’interiorità si fondono, fino a creare una rappresentazione della realtà che sfocia in una profonda consapevolezza.
In La vita gioca con me, il suo ultimo lavoro, uscito per Mondadori il 29 ottobre di quest’anno, viene raccontata in forma romanzata, come Grossman stesso dichiara alla fine del libro, la vita di Eva Panić Nahir, una donna sopravvissuta ai gulag di Tito sull’isola di Goli Otok.
Eva, nel romanzo, viene ribattezzata Vera, una donna anziana che vede stringersi intorno alla sua figura un’intera comunità che la riempie di affetto. Ma una moltitudine di persone che trasmettono affetto può anche non significare nulla per un’anima sola.
In tutti i suoi libri, Grossman racconta l’amore: l’amore per un figlio, l’amore per un amante, l’amore per il mondo. Ma l’amore di Grossman non è una potenza invincibile, è un’entità mutevole che si costruisce e si sfalda, si tradisce e si ricompone.
Vera ha una figlia, Nina. Vera è costretta ad abbandonarla perché viene segregata a Goli Otok: la sua condanna è dovuta al suo rifiuto di firmare un foglio in cui dichiarava la colpevolezza del marito Miloš – morto suicida – considerato nemico di Tito. Vera, una volta liberata e ricongiunta con Nina, viene poi a contatto con Tuvia, un uomo di cui si innamora e con cui condurrà il resto della sua vita. Rafael, figlio di Tuvia, si innamora di Nina e dalla loro unione nascerà Ghili, la vera protagonista del romanzo.
La vita gioca con me è la storia di una serie di abbandoni, forzati e voluti, di cui si compone la normale esistenza umana. Vera abbandona Nina e la tradirà, condannandola ad una vita di strada, e a sua volta Nina, incapace di trovare con la sua famiglia un posto ritagliato a sua immagine, abbandona la figlia Ghili, lasciandola con il padre e fuggendo su un’isola a cercare la solitudine.
In occasione del compleanno di Vera, tutti i tasselli di un’intricata rete familiare si troveranno faccia a faccia, distruggendosi e componendo qualcosa di nuovo, non necessariamente di migliore, ma di diverso. È ciò che Grossman fa sempre: sbriciolare per ricomporre, senza mai imporre un giudizio sulle scelte umane che i protagonisti, più umani degli esseri umani, si trovano costretti a fare per preservare soprattutto la propria integrità.
In A un cerbiatto somiglia il mio amore Orah, Avram e Ilan compongono il triangolo su cui si sviluppa una storia fatta di interiorità materializzata, di amore che nasce, cresce e improvvisamente sparisce, di una vita che non è fatta di un lieto fine ma di una sospensione che oscilla tra felice e infelice, tra senso e insensatezza, tra odio e affetto. In Che tu sia per me il coltello Yair e Myriam costruiscono un rapporto fatto di parole ossessive, di incomprensioni e desiderio, di attrazione e repulsione che finisce in un vortice di umana follia.
Lo stesso accade in La vita gioca con me: Nina ha una malattia che la condanna a dimenticare. Lei, Rafael, Vera e Ghili si troveranno a dover affrontare gli uni i limiti degli altri, in una tensione continua che si materializza nella paura di toccare l’altro e nella necessità di guardarsi negli occhi, per poi realizzare che chiunque, nel profondo, è un po’ un artista della vita.
“I miei occhi nei suoi. C’è un che di acquoso nello sguardo di Nina e per un momento le credo. Poi penso all’artista della vita di Van de Velde, l’uomo che mi ha insegnato i segreti di un matrimonio perfetto (“Ci sono persone dall’affettività fasulla, estremamente povere sotto il profilo emotivo, che fingono di provare affetto. Costoro vengono definiti ‘artisti della vita’”), e le credo un po’ meno”.
La mancanza dell’oggettività e l’assoluta supremazia della soggettività, dell’interiorità, dell’io come unico filtro con cui guardare il mondo raggiunge il suo apice nella considerazione che Grossman sembra avere della verità. La verità, anch’essa come la vita, si sfalda fino a non avere più nessuna autorità, così come i giudizi etici, le considerazioni generaliste, i rapporti interpersonali. La verità esiste solo in quanto valida per il sé.
“Tutte queste ciance che gente deve sempre conoscere tutta verità e “saperla affrontare”, come dite voi, vanno benissimo, Ghili, e sono oneste ed etiche, complimenti…” Vera batte tre volte le mani. “Ma io ti dico che non si può (…) Menzogna è quando qualcuno ti vuol far male, ma in questo caso forse, forse, si tratta di qualcuno che non aveva scelta”.
In corsivo, nel libro, vengono riportate le descrizioni del gulag di Goli Otok, rendendo il libro non solo un romanzo, ma anche una testimonianza, e rendendo Grossman, di nuovo, portavoce di una sua posizione politica ben definita (David Grossman è un uomo molto attivo politicamente, sostenitore della sinistra israeliana e impegnato in favore del dialogo e della pace con arabi e musulmani, soprattutto dopo la morte di suo figlio Uri, ventenne, ucciso da una bomba anticarro).
“Vera si accomiata da sua madre. L’abbraccia. Se n’è andata da quasi dieci anni, ad Auschwitz. Alcune donne sopravvissute a quel campo di concentramento, e poi finite a Goli Otok, le hanno detto che qui è peggio. Là sapevi chi era il tuo nemico, da chi dovevi stare in guardia. Qui, invece, trasformano chiunque in un nemico. Perché poi tu non possa fidarti più di nessuno.”
La vita gioca con me è un romanzo sull’umanità e sulla fragilità dell’essere umano e delle sue convenzioni, dei rapporti sociali e della staticità sentimentale ed interiore. Attraverso le sue parole, ancora una volta, Grossman riesce a creare lo spaccato di una società contraddittoria che trova nell’incapacità di risolvere questa contraddizione il motore principale della sua esistenza.