Se è Arte, non è reazionaria. Se è Arte, non è fascista. Tutta l’arte che si potrebbe esporre se l’Italia non si vergognasse del proprio passato…
Arts&Foods. Rituali dal 1851 curata da Germano Celant, Medardo Rosso. La luce e la materia, George Rouault: Opere Grafiche, Lo sposalizio della Vergine di Raffaello e Lo sposalizio della Vergine del Perugino in mostra alla Pinacoteca di Brera, un’infinità di altre esposizioni: Expo 2015, con i suoi alti e bassi, mi sta simpatico. Leggo gli articoli che lo riguardano con un sorriso ebete stampato in faccia, capisco il 50% di quello che è scritto e non me ne turbo, partecipo all’euforia passivamente. Mi pare vada tutto bene, le spighe nel Wheatfield di Agnes Denes a Porta Nuova crescono robust – ben inteso, non mangerò nemmeno mezza mantovanina proveniente da quel grano perché dopo un anno passato a sfamarmi con cibo degli orti metropolitani avevo la cupremia a 900 – e il mondo dell’arte è impaziente di vedere La Grande Madre di Massimiliano Gioni. No, a dire il vero non tutti sono impazienti, ieri un amico video-artista ha quasi infranto una pinta di birra gridando a pupille dilatate: «Cazzo! In arte “la madre” e “il cibo” non esistono, esistono mia madre, il mio cibo». Mi ha convinta.
Il giorno in cui avrà inaugurato anche l’ultima delle mostre d’arte in programma per Expo 2015, mi sveglierò nella stanza dove dormo quando sono a Milano, in Corso Concordia, e chiuderò di nuovo gli occhi. Michelangelo, Andy Warhol, Issey Miyake, Leonardo, James Ensor, Giovanni Antonio Boltraffio, Cindy Sherman, Claes Oldenburg, Pontormo, amo tutti gli artisti di Expo 2015, ma non ho voglia di (ri)vedere nessuna delle loro opere.
Il mio sogno per Expo è tutt’altro: restituire dignità alle opere create durante il ventennio fascista e celebrare quelle, crepuscolari o di canuti scapigliati, che di poco le hanno precedute. Dimostrare che le opere dipinte, scolpite durante il Ventennio non facevano di tutta l’erba un fascio: a ciascuna opera la sua libertà. L’estetica faceva la schiavetta del regime, ma l’arte offriva una chance a chi osava accoglierne l’invito. Lavorare con la materia costringe a un tale rapporto con il reale da non lasciar spazio all’ideologia: pittura e scultura sono sempre movimenti di resistenza. Solo smettendola di vergognarsi del proprio passato, gli artisti, i critici, i curatori italiani potranno riappropriarsi di quell’identità nazionale che ancora oggi plasma in ogni parte del mondo lo stile dei più grandi artisti, i quali molto spesso non si accontentano di una sola patria, ma scelgono una seconda terra da usare come metafora della propria opera. Joan Jonas è irrimediabilmente americana, Markus Lüpertz definitivamente tedesco, Tala Madani è 50% iraniana 50% americana, Peter Doig è 100% canadese, 150% inglese, 200% trinidadiano.
Comincerò ora a descrivere ciò che non sarà mai…
…Sogno un Expo scultoreo, i cimiteri lombardi e piemontesi prestano ad Expo i loro bronzi e i loro marmi. Vedo gli angeli e le spose della morte, i boari, gli amanti, le muse incappucciate scolpite da Leonardo Bistolfi (1859-1933) in tante casse stipate nel buio dei camion, in coda al casello di Sesto San Giovanni. Ognuna di queste viene eretta a forza dentro le aule dell’Accademia di Brera, picconando intorno alle porte se necessario, dopo aver sbattuto fuori studenti e professori. Al posto degli slogan di Arts&Foods, al posto di «Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita», vedo un immenso cartellone con scritto: «To you, my dearest Chinese sales consultant, vince il chiuso rigor l’anima schiava», l’omaggio reso da D’Annunzio alle opere che lo scultore funebre immaginò per Erminia Cairati e per altre signore dai nomi di broccato.
Vedo la scultura monumentale del Ventennio: monumenti ai caduti in guerra, monumenti ai reparti militari, monumenti a marinai, a irredentisti con i capelli a spazzola, minatori, aviatori narcisi, ferrovieri, a paffuti fanti vestiti da frati, a San Carlo Borromeo che doveva farsi in quattro per stare su tutte le statue a lui dedicate, ai dioscuri, alle quadrighe, a fanciulline scarne trapassate quando ancora si legavano nastri intorno ai codini, al sole e a Cristoforo Colombo; vedo questi monumenti stipati nelle aule del Manzoni e del Parini. Esami di maturità, saltati.
Un’aula a parte è dedicata a una piccola riproduzione fotografica della Vittoria dell’aria, la scultura che un giovane Lucio Fontana presentò proprio a Milano nel 1936 al Salone d’Onore della VI Triennale, una scultura oggi distrutta, la cui immagine si cerca spesso di sotterrare in mille modi. Forse un po’ scomodo pensare che sul plinto della Vittoria plasmata dall’artista degli egalitari buchi, degli esistenziali-ma-non-troppo tagli, ci sia stato scritto: «Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo offenderà contro chiunque con le armi. Mussolini».
Poiché dopo un po’ il Novecento mi suscita la stessa pienezza gastrica che la pasta –«palla e rudere che gli italiani portano nello stomaco come ergastolani o archeologi» – dava a Marinetti, vedo più in là nel tempo una sfida epica tra gli artisti morti più maledetti d’Italia e i living artists più bulli del mondo. In pole position i teatrini della morte, gli ammassi di cadaveri bubbonici, di Gaetano Giulio Zumbo, abate e ceroplasta deceduto nel 1701, tirano uno schiaffo in sfida agli scheletrini nazisti della coppia di fratelli inglesi Jake e Dinos Chapman.
Vedo quaranta bus navetta stipati di messicani ottuagenari andare in pellegrinaggio al Liviano, la facoltà di lettere dell’Università di Padova, e inneggiare di fronte agli affreschi di Massimo Campigli: «Scusaci, se per una vita abbiamo pensato che Siqueiros fosse più grande di te, sei tu l’unico, el maestro de la pintura al fresco».
Vedo sì la retrospettiva di Medardo Rosso alla GAM, ma la vedo ben diversa; vedo Rosso esposto al fianco di Brancusi con due didascalie cubitali: “1896” sotto Madame X di Rosso, “1910” sotto la Musa dormiente del grande rumeno. Quel narciso di Rosso avrebbe addirittura apprezzato una mostra in cui la sua produzione fotografica – con la quale documentava, ambientava, virava le proprie sculture e che per molti versi ha ancora più valore di queste ultime – fosse stata inserita tra quella di artisti contemporanei che sviluppano la propria poetica su fotografie di documentazione di opere altrimenti temporanee. Non sono una fan delle opere temporanee, ma degli sforzi nelle idee espositive sì. Addirittura, visto che tra gli obbiettivi di Expo c’è anche quello di tartassare lo stanco Leonardo, si sarebbe potuto affiancare la Rieuse di Rosso, che certi giorni sorride come la nipotina della leonardesca Sant’Anna, proprio alla sua antenata.
Vedo Roma a Milano, non la Roma di Giulio II che strizza l’occhio a Michelangelo, né quella di Leone X che strizza l’occhio a Raffaello, ma quella pullulante di cardinali sguaiati e cani randagi. La Roma delle «stirpi di scheletri ingioiellati», dei «secchi ossami di vescovi mitrati»; insomma, vedo 30 tele di Scipione.
Infine la mostra di Georges Rouault, oasi di disperazione tra gli stand dell’ottimismo. Quella nel mio sogno rimane dov’è, al Castello Sforzesco. Le grafiche di Rouault approdano a Milano con quell’aria un po’ così, da Cristo nelle colonie, per citare il celebre personaggio del suo intimo amico e compagno cospiratore Léon Bloy che tutto il giorno e tutta la notte, le tempie imperlate di sudore, scriveva queste righe: «Un Vagabondo che loro non conoscono li denuderà con un solo sguardo, e la loro nudità sarà così spaventevole che invano chiederanno il permesso di nascondersi sotto gli stracci dei più infimi mendicanti, di nutrirsi dello sterco dei più fangosi animali e di bere il sudore dei cammelli appestati».