Dopo la brillante uscita del precedente “Il gioco del destino e della fantasia”, Ryûsuke Hamaguchi, regista giapponese del momento, propone il suo ultimo film “Drive My Car”: in cui il tema del lungo viaggio che favorisce il dialogo tra i personaggi e le confessioni reciproche, è abbinato alla celebrazione del teatro come luogo di comprensione tra personalità, lingue e culture diverse
Un’auto rossa è la vera protagonista di Drive my car, l’ultimo film di Hamaguchi, premio per la miglior sceneggiatura all’ultimo festival di Cannes. Un’auto che corre, arranca, rimbalza, su e giù senza fiato lungo un nastro d’argento che percorre sinuoso i dintorni di Tokyo e poi l’isola di Honshu, su cui sorge la città di Hiroshima. Un’auto rossa, una Saab 9000 Turbo, che corre su e giù a volte senza senso, portando persone che di un senso sono alla ricerca. Un senso che poco per volta si affaccia e si afferma attraverso il teatro di Cechov, in particolare un’opera struggente e immortale come Zio Vanja. Yusuke Kafuku, il proprietario dell’auto rossa, è un regista e attore teatrale, e ha accettato di mettere in scena lo Zio Vanja, un’opera, lo dice lui stesso, capace di farti tirare fuori ciò che davvero sei, di costringerti a esprimere ciò che covi dentro.
Ma il punto è proprio questo: chi è Kafuku? Sappiamo che è rimasto vedovo di una moglie amatissima, ma sfuggente e traditrice; che ha perso una figlia bambina; che ha deciso di trasformare il teatro in una fortezza, e la sua macchina – sì, l’auto rossa da cui siamo partiti – in un nido, una tana, un nascondiglio. Andando su e giù da solo, al volante dell’auto, ripassa le battute del suo personaggio, l’amareggiato zio Vanja, e riascolta la voce della moglie – la donna alla quale avrebbe voluto dire tutto, con cui avrebbe voluto condividere ogni respiro, e con la quale invece ha imbastito per anni un teatrino di bugie condivise, di schermi e veli e sottintesi e omissioni.
Ma quando arriva a Hiroshima per prendere in mano le redini dell’allestimento dell’opera di Cechov, gli organizzatori gli impediscono di guidare la macchina. Ci vuole un autista. Così vogliono le regole. Una giovane autista, Misaki, per la quale il protagonista prova subito qualcosa di simile al nervosismo, se non all’esasperazione. Non la vuole, la giudica una ragazzina inutile, priva di interesse, con la quale non ha senso scambiare neanche una parola. Ma non può farne a meno, se vuole proseguire nel suo lavoro. E così, nello spazio angusto e condiviso dell’auto rossa, l’uomo e la ragazza imparano a parlarsi, a condividere le loro ferite, a raccontarsi i loro lutti, a confessarsi colpe e traumi, a ritornare sui propri passi per ritrovare la capacità di vivere.
Del resto, proprio questo è l’insegnamento dell’opera di Cechov che si chiude con queste parole: «Che fare? Bisogna vivere! Noi vivremo, zio Vanja. Vivremo una lunga, una lunga sequela di giorni, di interminabili sere. Sopporteremo pazientemente le prove che ci manderà la sorte. Faticheremo per gli altri, adesso e in vecchiaia, senza conoscere tregua. E quando verrà la nostra ora, moriremo con rassegnazione e là, oltre la tomba, diremo che abbiamo patito, pianto, sofferto amarezza…».
Parole parole parole, Drive my car è un film di parole fluide, dinamiche, mai ferme, spesso incorniciate da piani lunghi e inquadrature statiche. Un fiume di parole che scorre lento e sinuoso, significativo e al tempo stesso enigmatico. Tratto da un racconto di Murakami Haruki, – contenuto nella raccolta Uomini senza donne – Drive my car è un lungo e struggente viaggio nei meandri della fragilità umana, un’esplorazione precisa e commossa della propria solitudine e di quella degli altri, della morte e del senso della vita. Parole che si intrecciano tra una lingua e l’altra – la compagnia impegnata nell’allestimento dello Zio Vanja è composta da attori e attrici che parlano lingue diverse (giapponese, cinese, coreano e inglese, e anche il linguaggio dei segni) e riescono ugualmente a lavorare insieme, ad ascoltarsi e comprendersi, nello spazio inquieto di un palcoscenico teatrale, nell’emozione di un dialogo, di uno sguardo, di un gesto.
Un film dalla lunghezza impegnativa – tre ore – eppure così emozionante da scorrere rapido e leggero, sinuoso, magnificamente significativo. Una messa in scena che non ha paura di prendersi il suo tempo – i titoli di testa arrivano dopo quaranta minuti, dopo che abbiamo avuto agio di entrare nella casa del protagonista, e dentro il rapporto con sua moglie, e ascoltare le storie che si raccontano dopo aver fatto l’amore, ed esplorare il dolore che li tiene insieme e la speranza che forse li allontana. E la vita che devono di nuovo imparare a vivere. Con pazienza. La stessa che deve esercitare lo spettatore, accettando di lasciarsi attraversare da queste immagini, da queste parole, da questo cinema potente e sincero, complesso e sfuggente. Come la vita.
Drive My Car di Ryûsuke Hamaguchi, con Hidetoshi Nishijima, Toko Miura, Reika Kirishima, Masaki Okada, Perry Dizon.