Costruito con rigore e con materiali pregevoli e in parte inediti “Vita activa – The spirit of Hannah Arendt” è il documentario di Ada Ushpiz sulla vita dell’autrice de “La banalità del male” che arriva in Italia in occasione del Giorno della memoria
Hannah Arendt, ebrea e tedesca, filosofa dallo sguardo acutissimo, torna a far parlare di sé.
E lo fa, dopo il bel film di Margarethe Von Trotta uscito nel 2014, con Barbara Sukova nei panni energici e ostinati della protagonista, e dopo The Eichmann Show di Paul A. Williams, film decisamente più mediocre arrivato nelle sale un anno fa e incentrato sul processo al criminale nazista Adolf Eichmann, che la Arendt seguì come inviata del New Yorker a Gerusalemme nel 1961, e dal quale trasse nel 1963 il suo libro più controverso: La banalità del male.
Un testo che affermava una semplice ma indigesta verità: che Eichmann e gli altri criminali di guerra nazisti non erano mostri, demoni, esseri in qualche modo straordinari, ma soltanto piccoli uomini banali, grigi burocrati, ottusi ingranaggi di una macchina enorme e perfettamente efficiente. Uomini qualunque, uomini come noi. Per queste sue parole Hannah Arendt subì critiche feroci, attacchi pesantissimi, un vero e proprio ostracismo che amareggiò gli ultimi anni della sua vita.
Di questo e di altro si parla in Vita activa – The spirit of Hannah Arendt, pregevole documentario firmato da Ada Ushpiz, in arrivo sugli schermi in occasione del Giorno della Memoria (a Milano sarà visibile dall’1 al 7 febbraio allo Spazio Oberdan). Un film costruito con pazienza e rigore, notevole rispetto e autentica curiosità, a partire da una discreta massa di materiali in gran parte inediti o comunque ben poco visti.
Un ritratto intellettuale e al tempo stesso intimo, che intreccia vita privata e vita pubblica, attraverso i luoghi dove la Arendt ha vissuto, lavorato, lottato, amato, sofferto, dalla Germania del periodo compreso fra le due guerre mondiali agli Stati Uniti fra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Molte le interessanti immagini di repertorio dell’ascesa al potere di Hitler e della scientifica creazione del nemico: l’ebreo causa di tutti i mali e quindi da estirpare come un’erbaccia, una volta per tutte. Ma il filo conduttore di questo documentario intenso ed emozionante è la voce stessa di Hannah Arendt, che risuona forte e lucida, nelle lunghe interviste degli anni Sessanta come nei brani tratti dalle sue opere, e soprattutto negli scambi epistolari con Karl Jaspers e Martin Heidegger.
Di entrambi fu allieva appassionata nella Germania degli anni Venti, poco prima della catastrofe. Di Martin Heidegger fu anche appassionata amante, protagonista di una relazione clandestina sconveniente da più punti di vista, ma che lei non rinnegò mai, arrivando anche, subito dopo la guerra, a testimoniare in suo favore nel processo in cui l’autore di Essere e Tempo fu chiamato a discolparsi dall’accusa di aver favorito il regime nazista.
Heidegger, di cui ancora in anni recenti si è molto parlato in concomitanza con la pubblicazione dei famigerati Quaderni neri, è stato senza dubbio un grande pensatore, ma anche lui come molti all’epoca subì il fascino della dottrina nazista, arrivando al punto di “piegare” il suo pensiero (nato a stretto contatto con il pensiero del suo maestro Edmund Husserl, un ebreo!) alla costruzione di un nemico interno – gli ebrei tedeschi – di cui il nazionalsocialismo aveva bisogno come capro espiatorio per tutti gli errori e le debolezze della recente storia tedesca. Un peccato ben più imperdonabile dell’opportunistica adesione al partito nazista, nel 1933, grazie alla quale conquistò la carica di rettore all’università di Friburgo.
Una scelta, questa di Heidegger, certamente iscrivibile a quella banalità del male di cui parla la Arendt, e che brilla sui volti festanti di donne, bambini e ragazzi che fanno ala al passaggio di Hitler, acclamandolo freneticamente come l’unico messia in grado di salvare la Germania. Sono immagini di repertorio che abbiamo già visto tante volte, ma ancora una volta colpiscono: la guerra è ancora lontana, le camere a gas non sono ancora state costruite, ma il Reichstag è già stato bruciato e il nemico individuato. L’orrore è già in movimento. E la “questione della colpa” – dal titolo di un decisivo saggio di Karl Jaspers sui tedeschi e sul nazismo – ha ancora bisogno di analisi lucide e risposte coraggiose. Proprio per impedire che l’orrore prima o poi ritorni. Tenendo sempre a mente questa battuta di Jaspers, tratta da una lettera scritta a Hannah Arendt alla fine degli anni Quaranta: «I batteri possono provocare epidemie che spazzano via intere nazioni, ma restano dei batteri».