Il successo di Simon Stephens arriva in Italia: una bravissima Elena Russo Arman, diretta da De Capitani, si cala nell’impegnativo ruolo di una donna alle prese con le amarezze di un’esistenza non felice
Elio De Capitani porta in scena Harper Regan, del premiatissimo drammaturgo inglese Simon Stephens, già autore di una trentina di testi (sua anche la fortunata versione dello Strano caso ucciso a mezzanotte) che hanno viaggiato in Europa, in Canada e negli USA. Sul palco dell’Elfo, dal 9 febbraio al 6 marzo.
«Se te ne vai, puoi anche fare a meno di tornare» È la frase di apertura dello spettacolo. Una donna aspetta inquieta, un uomo finisce di farsi fare un massaggio, poi si alza, si avvicina, le dà le spalle e le dice: «Se te ne vai, puoi anche fare a meno di tornare». È già chiaro che si parlerà di un viaggio, o di andate e ritorni, movimenti nel tempo e nello spazio, che avvicinano (a volte all’Altro, altre al passato, altre ancora al presente) e allontanano, creando fratture, aprendo ferite, squarci nella pelle.
Harper Regan (Elena Russo Arman) è una donna sui quarant’anni che vuole andare a trovare il padre morente per dirgli, una prima e ultima volta, quanto sia stato importante per lei. Lei, la donna che aspetta inquieta mentre il suo capo (Francesco Acquaroli) si lascia massaggiare, per poi dirle che se va, non deve tornare – che se va, perde tutto. Schiacciata da lui, sembra non riuscire ad uscire dall’ufficio, come in un film di Buňuel, costretta ad ascoltare i soliti luoghi comuni sui giovani, che nemmeno sono immorali, ma amorali, perché non hanno morale, non hanno pensiero; e internet, le chat, quasi una droga, che inghiotte il tempo e l’attenzione di ognuno, e non se ne può fare a meno… E questo prima monologo del capo di Harper annuncia l’altro tema della pièce: il confronto tra generazioni.
La scenografia è fissa: una stanza ampia, color crema o bianco sporco, che copre in lunghezza tutto il palco; sulla sinistra una piattaforma a elle, che servirà di volta in volta da ripiano di una cucina o da ponte su un fiume; in fondo una parete con tre porte-finestre, da cui entra chi viene dall’esterno, o da cui si resta chiusi fuori mentre si cerca invano di salutare il proprio padre per un’ultima volta. In questo ambiente, in una successione di undici quadri, si dipanano due giorni della vita di Harper: un susseguirsi di incontri, quasi sempre in tête à tête, che scandiscono, come nel più lineare Viaggio dell’eroe (alla Joseph Campbell o Christopher Vogler), il richiamo all’avventura (la malattia del padre), il rifiuto di partire, per non perdere il lavoro, l’incontro con mentori e guardiani di soglia, la partenza, il viaggio, fino alla pancia della balena (che forse è rappresentato dall’incontro con la madre, Cristina Crippa), e infine il ritorno, brusco – perché in viaggio si è imparato a dubitare e perché il luogo in cui si torna, la «casa» per eccellenza, non sarà più la stessa di quando si è partiti.
Ecco, questo è il primo nucleo, quello del viaggio. Il secondo, ancora più denso forse, è quello del rapporto tra generazioni. A parte il marito (Cristian Giammarini), infatti, Harper si confronta con un carosello di personaggi di età diverse, trovandosi in qualche modo in mezzo, madre e figlia, amante molto più vecchia di un trentenne antisemita (Marco Bonadei) e di un liceale sconosciuto (Martin Chishimba) – seguito e cercato più volte –, e molto più giovane di un uomo scelto per caso in una chat d’incontri. Il confronto con l’Altro parte quindi, sempre, da una lontananza tangibile, cui Harper si relaziona con qualche barriera di ruolo che accetta sempre però di calare in nome di una curiosità e di una spinta allo scambio grazie a cui riesce a farsi penetrare e spostare da ogni incontro, senza risparmiarsi, entrando, ogni volta da una porta diversa, davvero in contatto con l’Altro.
C’è infine il grande assente, motore del viaggio eppure unico Altro con cui non c’è possibilità di confronto: si tratta del padre, per il quale Harper parte, rischiando di perdere il lavoro – forse di perdere tutto – e che non trova, perché al suo arrivo è già morto (morto nel sonno, senza parole che lascino una traccia) e perché nel corso del viaggio le verità che le aveva lasciato in eredità vengono dissodate, messe in dubbio. Così la guida, il padre, evapora, come direbbe Lacan, lasciando figli senza eredità e senza verità. Ed è la generazione di Harper a essere sola, in balia della vita, perché si sente tradita dall’abbandono del padre e non riesce dunque a prendersi la responsabilità di essere adulto, di essere guida – si affida anzi a adolescenti che sono, come dice lei stessa alla figlia, «così sicuri di sé».
Eppure è forse proprio in quell’atto di coraggio di partire, di rischiare di perdere tutto ciò che ha nel presente per tornare verso le proprie origini, verso il padre, pur non trovandolo, verso la madre, che da troppo tempo evita di affrontare e guardare in faccia – è proprio in quest’atto di coraggio, in questa partenza che è un ritorno, che sta la chiave per trovarsi, per diventare individuo, riuscendo infine a essere persona e a essere madre.
Elena Russo Arman riesce straordinariamente a sostenere la complessità psicologica ed emotiva di questo personaggio, dando profondità e spessore a ogni gesto; notevoli anche Camilla Semino Favro, che tratta con passione e ironia il personaggio della figlia, rendendolo quanto mai vivo e riuscendo a un tempo a divertire e commuovere. È proprio la recitazione intensa degli attori a rendere così vivo il testo di Simon Stephens, già di per sé meritevole di voler rispondere a domande così urgenti e contemporanee.
Harper Regan, di Simon Stephens, all’Elfo Puccini fino al 6 marzo