Era il 1974 quando in Giappone andava in onda la prima puntata della serie animata Heidi – Girl of the Alps. Cinquant’anni dopo una mostra appena conclusa a Lugano ha voluto ricordare “in patria” la “buona selvaggia” dell’anime giapponese, divenuta per generazioni simbolo di amicizia, semplicità e amore per la natura.
Non vorrei che andasse perduta la possibilità di riflettere su Buon compleanno Heidi, la piccola mostra che è stata allestita nella Sala di San Rocco, nel centro di Lugano, durante le feste natalizie. Confinata nella categoria di una ricorrenza – i cinquant’anni della serie animata giapponese su Heidi – , è un’occasione significativa per affrontare una serie di argomenti. Partiamo dal ricordo e dalla responsabilità di chi ricorda.
A metà degli anni ’70 la Rai trasmetteva ancora in bianco e nero. La conoscenza delle anime era scarsa, tentante e piena di suggestioni. Né un bambino né un ragazzino erano in grado di collegare la definizione facciale e fisica dei personaggi di Heidi con un mondo lontano: l’occhio sgranato, il corpo un po’ tozzo (che sarebbero stati poi di Supermario e di qualcuno dei Pokemon). Il colore era alle porte, e restava una canzone (Ti sorridono i monti). Privi di riferimenti, i ragazzi di cinquant’anni fa facevano fatica a capire, in Italia, cosa stesse dietro alla bambina dei monti, quale fosse il supporto letterario – vitalistico e instancabile – del romanzo ottocentesco di Johanna Spyri. Restava il dileggio, perché il successo di questi cartoon giapponesi generò una nuova ondata di fiction audiovisiva, al cinema, che aveva Heidi per tema. I grandi andavano in sala con fatica trascinati dai bambini che speravano di rivedere, sullo schermo, qualcosa della leggerezza dei cartoon giapponesi.
Se la critica italiana non è mai stata tanto abietta (cioè tanto anti – munariana) come allora, bisogna riconoscere che oggi – dopo tutti i lungometraggi di Miyazaki che abbiamo visto – la sollecitazione arriva fresca e traspare attraverso la magia delle immagini. Una mostra di disegni per i cartoon, una mostra che non può far vedere il risultato animato, è sempre uno squarcio di bottega interessante, anche nella sua naiveté. Pensando ai bambini la stanza era stata allestita a tema, col fieno per terra – ma più conta che ci fosse una postazione in cui i piccoli visitatori potessero disegnare con i pennarelli, ritrovare le tinte acide e squillanti tra le loro mani. I disegni erano stati raccolti da diversi collezionisti privati e permettevano di seguire lo sviluppo del movimento almeno di un personaggio, Peter che insegue Fiocco di Neve. Poi c’era il passaggio, attraverso l’acetato trasparente, al layout degli sfondi (che erano in buona parte opera del giovane Miyazaki) . Lì partiva il colore, lì lo sforzo di “assomigliare” a un paesaggio che l’équipe giapponese aveva conosciuto attraverso un viaggio in Svizzera (documentato dalle fotografie a colori d’epoca).
La memoria si apre in questi casi a un vortice di richiami. Penso ai backstage della Disney, con i disegnatori che schizzavano i cerbiatti – per Bambi – portati nello studio di Burbank col pavimento, anche lì, coperto di fieno. O al cielo del Principe d’Egitto, non dimenticato, del 1998, che faceva dire che il cielo dell’Africa mediterranea dovesse essere così : di quel blu. O ai paesaggi italiani, impeccabili e impressionanti, del Porco rosso di Miyazaki.
Il passaggio da un testo letterario del vecchio continente (la Spyri come Felix Salten, l’autore austriaco del racconto di Bambi) al tratto del Pacifico è già di per sé eccezionale e a suo modo meraviglioso. Amplia i confini della fantasia, ci induce a renderci ragione di un’emozione e di una memoria visiva che è fatta di stimoli ricchissimi. La mostra di Heidi si colloca, gentilmente, a un confine di questo tipo.
Nel ’74 c’erano già stati molti modi per vedere Heidi : l’aveva fatto Luigi Comencini con un film in bianco e nero e aveva avuto un tale successo da decidere la Confederazione a girare, per la prima volta, un film a colori che fosse il sequel di Heidi (Heidi und Peter, 1952). La serializzazione spezza il confine narrativo, ante litteram, e con i passaggi televisivi amplia la portata di Heidi. Oggi nemmeno l’Einaudi si vergogna a ripubblicare il romanzo mettendo quel cartoon in copertina.
Ma nello sguardo di un bambino alla mostra credo ci possa essere qualcosa di più. Forse una scintilla della piccola sciamana rossa – come usa chiamare oggi Heidi in letteratura – che possa mettere in movimento la voglia di definire con la matita sul foglio e di trovare uno spazio e una cubatura per le emozioni colorate. Per gli adulti, alla fine, la comprensione del portato della fantasy.
Il regista di Heidi, Isao Takahata, avrebbe fondato con Miyazaki nel 1985 lo studio Ghibli, i cui film hanno portato a una rilettura del tratto animato con un graduale, creativo senso di colpa, sempre sospeso al di là della terra ferma. Film per adulti – bambini, per i quali il confronto tra disegno e morphing digitale si possa instaurare in un clima più sereno e non affetto dalle pulsazioni di superficie.