Esperto di Bach, il musicista belga volge il suo interesse ad Haydn, ideale sintesi del suo percorso artistico, come se la purezza musicale del maestro viennese fungesse da ponte tra due grandi epoche della storia della musica, la classica e la romantica
Dopo appena due anni il grande direttore belga Philippe Herreweghe torna alla Società del Quartetto (22 marzo) con le sue due più importanti creature – l’Orchestre des Champs-Élysées e il Collegium Vocale Gent – proponendo nuovamente la musica di Franz Joseph Haydn: nel 2014 l’oratorio Die Schöpfung (La creazione) e, ieri sera, Le Sette ultime parole del nostro Redentore sulla Croce, nella versione oratoriale per solisti, coro e orchestra.
Il direttore che deve la sua fama principalmente alle interpretazioni bachiane, volge ora lo sguardo al primo grande classico della trilogia viennese. Abbiamo deciso, dunque, prendendo spunto dall’evento concertistico, di approfondire da un lato questa composizione interessantissima del maestro austriaco (e di non abituale esecuzione) e, dall’altro, di tracciare un breve profilo di Herreweghe alla luce del suo rapporto con Haydn.
La Settimana Santa è da sempre, nella tradizione cristiana, il momento più drammatico dell’intero anno liturgico: la rievocazione della passione e morte di Cristo al centro di questi giorni viene letteralmente “rappresentata”, secondo un principio di immedesimazione che è al cuore stesso del cristianesimo. La musica ha sempre svolto un ruolo di grande rilievo in questa rappresentazione, generando in ogni tempo capolavori che ascoltiamo ancora oggi, anche se la maggior parte delle volte slegati dal rituale che li ha generati.
Le Sette ultime parole del nostro Redentore sulla Croce di Haydn è una composizione che risale al 1787 ed è legata a un momento di riflessione a margine della liturgia quaresimale. Così racconta Haydn stesso la genesi dell’opera: «mi fu chiesto da un canonico di Cadice di comporre della musica strumentale sulle sette parole di Gesù sulla croce. Nella cattedrale di Cadige, infatti, vigeva l’abitudine di eseguire un oratorio ogni anno durante la Quaresima. A mezzogiorno, le porte del Tempio venivano chiuse e la cerimonia aveva inizio. Dopo un preludio appropriato, il vescovo saliva sul pulpito, declamava la prima delle sette parole e pronunziava un sermone su di essa. Terminato di far ciò, discendeva dal pulpito e si prostrava dinanzi all’altare. Questa pausa era riempita dalla musica. Quindi il vescovo pronunciava la seconda parola, poi la terza, e così via, la musica continuando a seguire le rispettive prediche».
Si tratta di un evento assolutamente normale per l’epoca (anche se certo non tutti i religiosi per le loro meditazioni potevano permettersi di ingaggiare un musicista come Haydn), con la musica che aveva il compito di intensificare le emozioni e rendere così più intensa l’immedesimazione dei fedeli.
La prima versione prevedeva, dunque, solo degli interventi strumentali; qualche anno dopo, nel 1796, Haydn rimette mano alla composizione e, con la supervisione del barone Gottfried van Swieten per il testo letterario, realizza una nuova versione in forma di oratorio. In questa ultima veste le essenziali parole di Cristo (pronunciate omoritmicamente dal coro) s’incastonano tra il commento strumentale (che rimane solitario all’inizio e alla fine dell’Oratorio) e le riflessioni del coro e dei solisti, che in qualche modo sostituiscono le prediche di cui parlava Haydn.
Dicevo all’inizio che Herreweghe volge ora lo sguardo verso Haydn; in realtà non è proprio così: è vero se ci riferiamo alle registrazioni (la prima risale al 2014, Die Jahreszeiten, e la seconda al 2015, Die Schöpfung, entrambe per la sua nuova etichetta discografica, PHI), ma, come ha detto lo stesso direttore in una non lontana intervista dedicata al compositore viennese, la pratica di eseguire Haydn è di lunga data.
In questa interessante intervista [di cui consigliamo la lettura integrale:
https://konzerthaus.at/news/entryid/342/Philippe-Herreweghe-on-Haydn-and-why-Making-Records-Makes-Sense]
Herreweghe, tra le altre cose, osserva come Haydn sia poco frequentato sostanzialmente per due motivi: il primo è di ordine culturale, ovvero la nostra dipendenza culturale dal romanticismo, per cui un autore «puro» e «felice» come Haydn ci appare molto lontano; il secondo motivo è di ordine musicale: la maggior parte delle orchestre moderne non padroneggia il linguaggio per eseguire questa musica.
Anche alla luce di queste osservazioni, nell’arco di una carriera certamente non convenzionale, è interessante che Herreweghe abbia atteso tanto per incidere Haydn. Dopo un inizio sotto il segno della musica antica, che lo ha visto emergere come uno dei più importanti interpreti di J. S. Bach (fu ‘scoperto’ negli anni ’70 da Nikolaus Harnoncourt e Gustav Leonhardt), Herreweghe, infatti, si è sempre più interessato alla musica sinfonico-corale ottocentesca, seguendo il fil rouge del canto (e del canto corale in particolare, come osserva in uno dei punti più interessanti della citata intervista).
Forse allora la decisione di Herreweghe di proporre ora Franz Joseph Haydn si può leggere anche come un’ideale sintesi del suo percorso artistico, quasi come se la purezza musicale del maestro viennese fungesse da ponte tra due grandi epoche della storia della musica.
E in questo senso le Sette parole – particolarmente care al compositore stesso – si configurano come un punto di partenza privilegiato per riscoprire Haydn stesso, sintesi ideale della sua musica: grande forza drammatica (anche se non “romantica”) racchiusa in un equilibrio formale e sonoro esemplare, capace di mettere a dura prova qualsiasi interprete.
Quella di Herreweghe si presenta, dunque, come una “sfida” nel proporre un autore in fin dei conti ancora poco eseguito e (per la maggior parte delle persone che ascoltano musica classica) relegato nel limbo storiografico del vecchio “papà Haydn”. Speriamo allora che, anche per merito di Herreweghe, Haydn possa trovare sempre più spazio nei nostri ascolti.