Le due mostre veneziane più interessanti dell’anno ruotano intorno all’immagine di un naufragio: “The boat is leaking” alla Fondazione Prada e la faraonica esposizione di Damien Hirst a Punta della Dogana e Palazzo Grassi. Qualche riflessione
È passato più di un secolo dal naufragio del Titanic. L’affondamento della nave che tutti dicevano non potesse affondare, alla vigilia dello scoppio di una guerra che tutti dicevano non potesse scoppiare, sembrava fatto apposta per assurgere a simbolo di una civiltà che, a tappe forzate, marciava verso la catastrofe della Prima Guerra Mondiale. La vicenda del Titanic non ha smesso da allora di esercitare il suo fascino sull’immaginario. Senza scomodare i languidi sospiri di Jack e Rose, basterà ricordare che si intitola Titanic uno degli album più belli di Francesco De Gregori – gli anni Ottanta erano appena iniziati… – e che è di nuovo il Titanic al centro dell’ultimo capolavoro di sua maestà Bob Dylan: i quasi quattordici minuti della ballata Tempest.
C’è, nell’immagine di naufragio, un valore simbolico, un portato metaforico che sembra avere molto da dire nella nostra contemporaneità. E del resto, al di fuori del regime simbolico, l’immane tragedia che quotidianamente si consuma nel Mar Mediterraneo impone il tema al centro del discorso pubblico. Non potrà essere un caso, insomma, se due mostre che hanno da poco chiuso i battenti a Venezia – forse le due mostre più interessanti di una stagione dominata da una Biennale che ha convinto pochi – avevano al centro fin dal titolo, pur nella loro radicale diversità, un naufragio: The boat is leaking, the captain lied alla Fondazione Prada e Treasures from the Wreck of the Unbelievable.
La prima era il curioso esperimento curatoriale inventato da Udo Kittelman che, nella sede veneziana di Prada, metteva in dialogo tre artisti tedeschi apparentemente distanti: il regista Alexander Kluge (classe 1932, uno dei riferimenti di Fassbinder), il fotografo Thomas Demand (a Milano ha curato l’anno scorso, sempre da Prada, la bellissima L’image volée), e la scenografa Anna Viebrock, fedele collaboratrice, tra le altre cose, per molte delle regie del grande Christoph Marthaler.
La seconda è la mostra kolossal a vocazione pop messa in scena da Damien Hirst negli spazi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana: gli spazi della Fondazione Pinault di François Pinault, indispensabile complice della faraonica operazione. C’è chi ha gridato al capolavoro, chi all’ennesima furbata di marketing; ne stanno scrivendo tutti (per esempio qui, o qui, o qui); di certo se ne parlerà a lungo.
Ma andiamo con ordine e cominciamo dalla mostra di Prada. Il titolo è tratto da due versi di una canzone di Leonard Cohen, Everybody knows del 1988: “la barca fa acqua, il capitano ha mentito”. Il mondo contemporaneo va in malora, sembra dire il curatore, e chi dovrebbe guidare le operazioni per cercare, almeno, di salvare il salvabile, è inaffidabile. Ma così si rischia di parafrasare in modo fin troppo triviale le parole di Cohen: il titolo della mostra non è nulla più che un nucleo poetico, un’esca di senso attorno alla quale si organizzano i materiali presentati dai tre artisti: una chiave di lettura da tenere in testa mentre scorrono sotto gli occhi le foto di Demand o le video installazioni di Kluge.
La gamma degli argomenti evocati è vastissima: dalle trasformazioni del mondo del lavoro (“abbiamo gli strumenti per affrontarle?”, sembra domandarsi Kluge in un video che affianca immagini di una futuristica fabbrica robotizzata a una manifestazione di operai dal look squisitamente DDR che intonano l’Internazionale) all’affondamento del Titanic e ai lutti della Prima Guerra (proprio il Titanic, proprio la Prima Guerra).
Ancora: un film di Kluge racconta la storia di un regista diventato cieco durante le riprese, vedi alla voce: capitani inaffidabili (curiosamente la stessa idea ritorna anche in un film poco riuscito di Woody Allen). Né mancano affondi sulla contemporaneità: da una sala che riproduce l’interno di una nave da crociera durante una tempesta, si poteva osservare, attraverso un oblò, una foto che raffigura un mucchio di faldoni appoggiati su un tavolo sotto una bandiera americana. Sono i faldoni, esibiti da Trump durante una conferenza stampa, che avrebbero dovuto contenere le prove dell’estraneità del presidente al Russiagate; si è scoperto in seguito che contenevano solo fogli bianchi. Al limite del rischio di didascalia (e forse oltre il limite): “the boat is leaking, the captain lied”.
E poi ancora: un video basato sul dialogo tra un gondoliere e un direttore d’orchestra sul modo in cui il canto si disperde sul mare; una poesia su Venezia scritta ad hoc per l’esposizione da Ben Lerner; un documentario su una messa in scena di Les Indes Galantes di Rameau…
A riassumere così, elencando alla rinfusa, si fa però torto alla mostra: si restituisce la sensazione di materiali accatastati a caso, come se i tre artisti, chiamati a dialogare, avessero rovesciato i propri cassetti senza criterio, per vedere di nascosto l’effetto che fa.
Ciò che manca, per restituire il senso dell’esposizione, è il lavoro di Anne Viebrock. A lei, alle sue invenzioni spaziali, è affidato il compito di cucire insieme i materiali della mostra. All’interno del piano nobile della settecentesca Ca’ Corner della Regina – sede veneziana della Fondazione Prada – la scenografa ha infatti costruito una serie di ambienti chiusi che trasformano radicalmente il portego del palazzo antico.
Dopo aver salito le scale, una prima porta introduce in una sala della Kunsthalle di Amburgo; sulle pareti una serie di quadri – veri, fatti venire da collezioni varie – del pittore tardo ottocentesco Angelo Morbelli: raffigurano tutte scene di povera gente ambientate in una sala del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Si apre una porta e ci si ritrova nella sala del Pio Albergo Trivulzio: la stessa stufa, le stesse panche in legno, lo stesso colore sulle pareti. Un’altra porta e si finisce in un’aula di tribunale a Bruxelles. E poi in un cinema degli anni Trenta. Nella sala di una nave da crociera. E via così: ogni nuova porta un nuovo ambiente, una nuova realtà spazio-temporale in un processo magico di continua delocalizzazione. Il tutto ricostruito con meticolosità fiamminga dalla scenografa, con una cura artigianale che commuove.
Dopo pochi minuti il senso di spaesamento è totale ed è difficile recuperare l’orientamento nella pianta, di per sé così semplice, del palazzo veneziano. È all’interno di questi ambienti che sono collocate le opere di Demand e Kluge. La percezione di una realtà uscita dai cardini, in cui neppure i parametri basici di continuità spazio-temporale sono garantiti, e nessuno può fare da guida, ecco, questo senso di spaesamento è il collante che tiene insieme tutto il resto.
Sono le porte inventate dalla Viebrock a scandire l’esperienza della mostra: quasi un’esperienza da realtà virtuale ottenuta tramite la concretissima sapienza fabbrile di una scenografa. E proprio le porte accolgono il visitatore nella commovente installazione a pian terreno. Solo quattro porte, innestate nelle strutture architettoniche del palazzo: la porta del Bar Safari, la porta di un modesto albergo (ci sono camere libere, annuncia un cartello), la porta di un cantiere, la porta di una cabina elettrica.
Varchi verso spazi che non esistono: ma bastano le porte per ricrearli nella mente di chi guarda. Inganni dell’arte. Non a caso, in mezzo alle quattro porte, una serie di video di Kluge fa deflagrare gli artifici del linguaggio cinematografico: un attore legge il giornale, ma basta cambiare l’illuminazione per trasformare l’effetto. Neppure dell’arte ci si può fidare. La barca fa acqua.
E veniamo a Damien Hirst. Proprio lui: quello dello squalo in formaldeide, quello del teschio tempestato di diamanti battuto a 50 milioni di sterline. L’artista che più di ogni altro, almeno a uno sguardo superficiale, ha incarnato nell’ultimo trentennio, e con quale spavalderia, le relazioni pericolose tra arte contemporanea e mercato, tra apparente superficialità kitsch e speculazione finanziaria. Eppure è da tutti riconosciuto come il più talentuoso, il più intelligente tra gli artisti della sua generazione (è nato a Bristol nel 1965). Eppure Francis Bacon in persona, poco prima di morire, aveva acquistato una sua opera…
Di certo a Damien non manca la capacità di pensare in grande. Treasures from the Wreck of the Unbelievable è una gigantesca truffa, una sontuosa messinscena senza risparmio di mezzi. Una fandonia raccontata con totale serietà e faccia tosta. Dieci anni di lavoro. Quattro mesi solo per l’allestimento. Un budget che, a quanto si dice, non ha nulla da invidiare alle produzioni di Hollywood.
Questa la storia raccontata da Hirst. Il ricchissimo liberto Amotanius (anche noto come Cif Amotan II, anche noto come Aulus Calidius Amotan: doveva essere un uomo di mondo), originario di Antiochia è vissuto tra primo e secondo secolo dopo Cristo. Ha messo insieme la più incredibile raccolta di sculture dell’antichità, raccogliendo manufatti da tutto il mondo conosciuto con la frenesia del collezionista e il senso di riscatto dello schiavo affrancato. Ha imbarcato la sua intera collezione su un gigantesco vascello, l’Àpistos (letteralmente l’Incredibile, l’Unbelievable del titolo): statue, monili, cimeli. Poi l’Àpistos, la più grande imbarcazione mai costruita, ha fatto naufragio nell’Oceano Indiano, al largo della costa orientale dell’Africa e il tesoro di Amotanius è finito sul fondo del mare. Fino al 2008, quando gli archeologi lo hanno ritrovato. Ora i frutti dell’incredibile ritrovamento sono, per la prima volta, esposti al pubblico.
Tutto falso, ovviamente. Clamorosamente falso. Solo che per raccontare questa fandonia, Hirst ha coperto uno spazio espositivo di 5000 metri quadri. Ha creato sculture colossali alte fino a 18 metri. Ha realizzato nei più vari materiali un numero esorbitante di opere. Ha girato finti documentari che mostrano i sommozzatori recuperare le opere sul fondo del mare. Ha creato qualcosa di grandioso.
Non ci sono cedimenti nell’intera esposizione. Niente, in nessun momento, dichiara esplicitamente la burla. Come ogni mentitore professionista, Hirst accumula dettagli, rilancia di continuo, regge il gioco senza incrinature, anche quando la fandonia diventa inverosimile, quando la bugia gli sfugge di mano. Quello vi sembra un robot di Transformer? Nient’affatto: è un idolo azteco. Quella scultura riproduce Topolino? Ma guardate, l’abbiamo ripescata sul fondo del mare, ci sono le foto, non vedete i sommozzatori, non vedete le incrostazioni di alghe e madrepore?
La menzogna di Hirst ha una fantasia sfrenata, tutto mastica e tutto restituisce. Ha una dimensione titanica. Torna alla mente la Guerra dei mondi radiofonica inventata nel 1938, con corredo di ascoltatori nel panico, da Orson Welles, un altro geniale sfrontato di lusso. E del resto chi è Amotanius se non un Charles Foster Kane dell’antichità?
Sono tanti i modi di fruire la mostra di Hirst. Ci si può lasciar coinvolgere nella narrazione inventata dall’artista, immergersi con i sommozzatori nell’avventura archeologica come in una gigantesca e fantasmagorica puntata di Voyager, tra Indiana Jones e Martin Mystere. Perdersi nei riferimenti mitologici che l’artista saccheggia indiscriminatamente dalle tradizioni di mezzo mondo, giocare in una fantasia infantile che, come per incanto, ha trovato il modo di realizzarsi (e invidiare Damien che ha avuto modo, a suon di milioni, di giocarla fino in fondo).
Ci si può concentrare sugli oggetti di rara bruttezza che Hirst ha sparso per le sale: oscillano tra i più plasticosi parchi a tema e la più tronfia arte monumentale di qualche regime post sovietico da operetta. Ci si può innervosire con la cinica operazione dell’artista che mentre sembra mettere in ridicolo un’estetica kitsch, la alimenta, saturando gli occhi dei visitatori di cattivo gusto, senza porsi alcuno scrupolo etico. Certo l’operazione di Hirst è satirica; ma gli oggetti sono veri, e come tali verranno venduti per dollari veri e andranno a riempire le collezioni vere di moderni emuli di Amotanius. Che poi Amotanius fosse un arricchito di scarsa cultura, sul cui buon gusto si può legittimamente nutrire qualche scetticismo, è solo un’ennesima impertinenza rivolta da Damien ai suoi compratori.
Si può ammirare la capacità di Hirst di fiutare l’aria dei tempi che corrono. Difficile non pensare che poche mostre potranno incarnare lo spirito del tempo – nell’anno della post-verità, nell’anno delle fake news – come la faraonica burla di Damien. Ad accogliere i visitatori a Punta della Dogana, del resto, sta la scritta “Somewhere between lies and truth lies the truth”. E Hirst gioca con le categorie di vero e falso; fin dall’inizio getta fumo negli occhi, mischia le carte, confonde la percezione. Quelle che vedrete esposte, dichiara, sono in alcuni casi le opere recuperate dal fondo del mare; in altri casi delle copie antiche, in altri ancora riproduzioni moderne dagli originali recuperati. Impossibile orientarsi. Una scultura in vetro resina sembra di bronzo; una in bronzo sembra di vetro-resina. Nulla è ciò che sembra.
Si può accettare la sfida tesa dall’artista e giocare una spassosa caccia al tesoro per cogliere, tra le centinaia di manufatti, gli ammiccamenti, gli anacronismi, i riferimenti più o meno colti di cui Hirst ha disseminato le opere: briciole di pane che, per il visitatore che abbia voglia di inseguirle, conducono a una totale esplosione, assai spassosa, del meccanismo di finzione costruito con tanta cura. Dagli indizi più macroscopici (una scultura riporta sul retro la dicitura “made in china”) a quelli più celati (uno dei tanti monili riproduce, tra i motivi decorativi, pasticche di Prozac), alle tante interferenze culturali.
C’è un dettaglio che mi pare significativo: i cartellini riproducono elenchi lunghissimi, fino al parodico, dei materiali di cui gli oggetti esposti sono composti. Negli elenchi compaiono però, alle volte, anche le luci a LED che illuminano le vetrine; e qui il cortocircuito è micidiale: che cosa è davvero l’oggetto dell’esposizione? Il manufatto esposto nella vetrina o il dispositivo stesso dell’esposizione?
Ecco un altro livello – forse il più significativo – a cui si può leggere la mostra: come una gigantesca parodia (diciamolo meglio: una gigantesca presa per il culo) del sistema delle mostre d’arte. Con tutti i suoi tic, le mode, le pretese (e malintese) velleità didattiche, con gli apparati preconfezionati di riferimenti pseudo-colti, iconologici e letterari, buoni per tutte le occasioni.
Una sala è dominata dal modellino della nave (praticamente un Playmobil gigante), e non manca (ormai non può mancare in una mostra che si rispetti) l’apparato multimediale che permette di esplorare virtualmente l’interno della stiva, con surreali schede per ciascuna opera (si scopre così, per esempio, che l’Apistos trasportava anche un fallo in oro massiccio del peso di sei tonnellate; non è stato recuperato dopo il naufragio).
Nella stessa stanza le pareti sono tappezzate di disegni: fogli, fintamente e malamente invecchiati, coperti da disegni che riproducono i pezzi della collezione di Amotanius. Si tratterebbe, secondo l’esauriente pannello esplicativo, di un codice rinascimentale che ricopia un manoscritto antico. La sala dei disegni non può mai mancare: “fa tanto scientifico”; e via in un profluvio di notazioni minuziose sulle tecniche disegnative. Peccato che i fogli, a guardarli bene, riportino come finti timbri collezionistici i loghi di famose case automobilistiche (Mercedes, Audi, Renault…) e che la firma del misterioso copista si riveli, a uno sguardo appena attento, la scritta «In this dream».
Le opere presentate in serie, con inevitabili disquisizioni sulle tecniche di copia e calco, sembrano scimmiottare la mostra Serial Classic, inventata da Salvatore Settis per Prada. E ancora: quante volte le mostre si incaponiscono sui rapporti tra arte antica e arte contemporanea? Ed ecco allora che dal naufragio dell’Unbelievable si è recuperato l’originale di un busto femminile già noto attraverso copie e molto ammirato dai Surrealisti: tutto falso, anche in questo caso, ma c’è anche la (finta) fotografia di una (finta) mostra anni Venti in cui le copie del busto stanno fianco a fianco con le opere di Ernst.
Si può passare ore a leggere le spiegazioni rigorosamente elaborate da Hirst per ciascuna opera, i cartellini dettagliatissimi perfettamente modellati su quelli di tante mostre d’arte antica: un po’ di Ovidio qui, qualche riferimento di storia religiosa là, una spruzzata di antropologia culturale, infarinature di mitologia. Solo che il meccanismo implode in sé stesso, le ipotesi si moltiplicano, gli stessi oggetti ritornano con cartellini completamente diversi e diventa evidente che non c’è nessun reale accrescimento di conoscenza: tutto si può spacciare a visitatori incolpevoli cui non si forniscono reali strumenti di consapevolezza critica e a cui, anzi, il dispositivo della mostra, con le sue forme vuote, impone un’ammirazione estetica coatta per oggetti bruttissimi. Lo spaesamento dei visitatori finisce così per far parte della mostra stessa in un gioco che può apparire cinico ma è, fondamentalmente, tragico.
Si arriva così a un ultimo modo di guardare alla mostra. Si tratta di percepire il senso di disperazione sorda che giace sotto l’intera operazione. Ciò che è naufragato non è (solo) l’Unbelievable: ad essere naufragata è un’intera tradizione culturale, è un patrimonio estetico condiviso, è la fiducia nella possibilità dell’arte di incarnare valori di verità. Dall’interno delle sale in cui campeggia lo sgradevole ingombro delle sculture di Hirst, le finestre offrono una vista incantevole sui palazzi veneziani sul Canal Grande, sulle pietre antiche magari arrossate dal tramonto: e il confronto è straziante.
In una delle ultime sale a Punta della Dogana, del resto, quella delle oreficerie, tra lo Scudo di Achille (sarà proprio quello descritto da Omero?) e una tartaruga d’oro massiccio che pare uno sberleffo alle invenzioni di Jan Fabre, si scopre una scultura diversa da tutto il resto, affogata in mezzo all’opulenza, nel cattivo gusto imperante. Si tratta di una piccola creatura animale mostruosa, fetiforme, tormentata, accartocciata su stessa. La didascalia recita “Sadness”. Se ancora si ha la forza di leggere il cartellino esplicativo, si scoprirà che è stato proprio il ritrovamento fortuito di Sadness ad indicare agli archeologici il luogo del naufragio. Che sia la chiave di lettura per l’esposizione, o solo l’ennesimo sberleffo è difficile dire.
Dal senso di naufragio imminente che percorre le sale trasfigurate della Fondazione Prada al naufragio dell’Unbelievable al naufragio culturale ed estetico del nostro tempo. Di naufragio in naufragio.