Per tre giorni nelle sale il documentario sullo storico incontro-intervista (da cui nacque un libro imperdibile) tra Hitchcock, ormai sessantenne, e il giovane Truffaut: ne parlano signori del calibro di Martin Scorsese, Wes Anderson, Peter Bogdanovich
Il 13 agosto 1962 Alfred Hitchcock e François Truffaut si incontrarono in una sala degli studi Universal a Hollywood e cominciarono un’intervista-maratona destinata a durare otto giorni. Così l’ha raccontata Truffaut: «Ognuno di noi era dotato di un microfono a collare, e nella stanza vicina un tecnico del suono registrava le nostre parole: sostenevamo ogni giorno una conversazione ininterrotta dalle nove del mattino alle sei del pomeriggio. Questa maratona continuava intorno al tavolo anche durante i pasti che consumavamo sul posto».
Grazie anche all’indispensabile aiuto di Helen Scott, amica e traduttrice, da quella lunga conversazione nacque un libro celeberrimo: Il cinema secondo Hitchcock. E sulla scia di quell’incontro, di quel libro, esce ora per tre giorni nella sale italiane il documentario da non perdere Hitchcock/Truffaut firmato da Kent Jones e Serge Toubiana.
Pubblicato per la prima volta in Francia alla fine del 1967, il libro ha visto diverse edizioni, fino a quella definitiva del 1983 (arrivata in Italia nel 1985 grazie a Pratiche Editrice, e ora disponibile per i tipi de il Saggiatore) che contiene un capitolo supplementare dedicato agli ultimi film del Maestro del Brivido: Topaz, Frenzy, Complotto di famiglia e il progetto di The Short Night, il 54esimo film di Hitchcock, quello che non avrebbe mai visto la luce.
In molti definiscono (giustamente) Il cinema secondo Hitchcock il libro che deve aver letto chiunque voglia occuparsi a qualunque titolo di cinema. Quasi tutti si dimenticano di dire che è il libro più divertente sul cinema che sia mai stato scritto.
Nel 1962 Hitch aveva 63 anni e stava concludendo il montaggio de Gli uccelli, il suo 48esimo film. Al suo attivo aveva una lunga serie di successi: da Notorius a Caccia al ladro, da Intrigo internazionale a Psycho. Era uno dei registi più ricchi e famosi al mondo, anche se i critici, sia in Europa che in America, continuavano a guardarlo con sufficienza e a stroncare metodicamente i suoi film.
Truffaut di anni ne aveva 30 e di film ne aveva girati appena una manciata. Dopo anni di militanza critica nei leggendari Cahiers du Cinéma (dove era sbarcato grazie all’uomo che lo aveva praticamente adottato, André Bazin) era passato dietro la macchina da presa con un autobiografico capolavoro, I quattrocento colpi. Arrivato al suo terzo film (aveva girato anche Tirate sul pianista e Jules e Jim) forse era ancora alla ricerca del padre che il destino da bambino gli aveva negato.
E in qualche modo una figura paterna sembra trovarla proprio in Hitchcock. Da quella lunga intervista nell’estate del 1962 nascerà infatti non solo un grandissimo libro, ma anche una ventennale amicizia fra due registi diversissimi, eppure così vicini nella capacità di trasferire sullo schermo sogni e incubi, realtà e immaginazione.
Erano quelli gli anni della Nouvelle Vague, una nuova e magnifica generazione di cineasti (in prima fila accanto a Truffaut c’erano Godard, Chabrol, Rohmer e Rivette) partiti all’assalto del “cinema di papà”, considerato vecchio e tradizionale, lontano dalla realtà e dedito solo allo sterile bisogno di intrattenimento. Ma non per questo i “Giovani Turchi” (così si erano autodefiniti) erano incapaci di riconoscere ciò che di buono c’era nel cinema di quelli che erano venuti prima.
Truffaut stesso racconta come nel 1962 a New York i giornalisti lo incalzassero chiedendogli «Perché i critici dei Cahiers prendono sul serio Hitchcock? È ricco, ha successo, ma i suoi film non hanno sostanza». Uno di quei giornalisti, sempre stando al racconto di Truffaut, arrivò a dirgli «A lei piace La finestra sul cortile perché, non essendo di casa a New York, non conosce bene il Greenwich Village». Fulminante la risposta dell’autore francese: «La finestra sul cortile non è un film sul Village; è semplicemente un film sul cinema e io conosco il cinema».
Subito dopo Truffaut scrisse a Hitchcock una lettera che iniziava così: «Da quando anch’io sono diventato un regista, la mia ammirazione per lei non è diminuita; al contrario, è diventata più forte e ha cambiato dimensione. Ci sono molti registi che amano il cinema, ma ciò che lei possiede è un amore proprio della celluloide, ed è per questo che vorrei parlarle».
Tutto questo (e molto altro) lo trovate in questo documentario passato alla Festa del cinema di Roma e ora in arrivo nelle sale. Un film che nasce dalla collaborazione fra Kent Jones, regista e critico cinematografico, attualmente direttore del New York Film Festival, e Serge Toubiana, ex direttore dei Cahiers du Cinéma e dal 2003 direttore della Cinémathèque Française.
Un film commovente e sorprendente, realizzato cucendo insieme materiali d’archivio e interviste ai tanti autori che sono venuti dopo, e che in qualche modo hanno beneficiato della “rivoluzione” gentile attuata da Truffaut e dagli altri Giovani Turchi della Nouvelle Vague. Ed ecco così scorrere sullo schermo le immagini e le parole di Martin Scorsese e di Olivier Assayas, Peter Bogdanovich e Paul Schrader, e poi ancora David Fincher, Richard Linklater e Wes Anderson.
Tutti a cercare di spiegare, ognuno con parole sue, quello che Truffaut sintetizzava così nella sua introduzione alla prima edizione del libro:
«Se siamo disposti ad accettare l’idea che il cinema non sia inferiore alla letteratura, credo che sia necessario classificare Hitchcock nella categoria degli artisti inquieti come Kafka, Dostoevskij, Poe. Questi artisti dell’angoscia non possono evidentemente aiutarci a vivere, perché vivere per loro è già difficile, ma la loro missione è di dividere con noi le loro ossessioni. Con questo, anche ed eventualmente senza volerlo, ci aiutano a conoscerci meglio, il che costituisce un obiettivo fondamentale di ogni opera d’arte».