Dall’elettronica al post-digitale, la ricerca di Holly e del suo compagno Mat Dryhurst ai confini della musica
Di lei si è parlato tanto, anzi tantissimo. Dalle recensioni entusiaste sulle riviste di settore all’interesse crescente nelle accademie di ricerca musicale, Holly Herndon ha infranto il muro del suono, aggiudicandosi un corposo articolo sul Guardian, testata non di settore.
Si è parlato delle possibili influenze dell’artista statunitense (da Aphex Twin a Ellen Allien, passando per Cage) e dell’intricata matassa sonora che caratterizza il suo lavoro (armonia degli opposti si è detto, ma ci torneremo), di ottimismo sul futuro e utopie politico -economiche. Il portatile come luogo d’intimità.
Quando si apre il vaso di Holly non esce solo (ottima) musica, ma una ricca, sistematica concettualità che dà da pensare un po’ a tutti, a chi bazzica il mondo della musica elettronica “intelligente” e a chi è immerso fino al collo nella club-culture. Ma anche a chi la musica elettronica non se la fila proprio.
Una sorta di filosofia dell’era digitale si evolve senza tregua lungo le sinapsi sincronizzate di Holly e del suo compagno d’arte e di vita Mat Dryhurst. Come affrontare oggi, nell’epoca dei social e delle intercettazioni governative, il sempre più delicato rapporto tra pubblico e privato? E come interpretare il fatto che passiamo in media qualcosa come quattro ore al giorno su internet? È davvero un sintomo di chiusura, escapismo, perdita di contatto umano, come si suol dire?
Anche solo queste poche domande permettono di inquadrare diversamente il fenomeno Herndon: la sua musica è soltanto la punta dell’iceberg. Proveremo a farci strada lungo questi quesiti attraverso le generose interviste rilasciate da Holly e Mat negli ultimi mesi e un live, quello tenutosi qualche giorno fa alla Fabbrica del Vapore, organizzato da S/V/N in occasione della release italiana del suo ultimo lavoro Platform (4AD). In coda anche quattro chiacchiere con loro a fine concerto. Ma partiamo dal live e da alcuni fatti noti.
Salgono sul palco, entrambi vestiti di nero (lui col cappellino in tinta), senza orpelli, simboli o cose simili. La chioma rosso rame di Holly spicca dietro il microfono e il suo fedele portatile. Mat si siede al suo fianco, chino e concentrato sui suoi programmi di elaborazione visuale. Alle prime note di Interference, sul maxischermo alle loro spalle non viene proiettato un video né un’immagine, ma una scritta digitata da Mat in tempo reale. La scritta recita più o meno così: sentitevi liberi di dire la vostra scrivendo a questo numero, 15102060***. Spiazzante. Dopo qualche minuto di titubanza, qualcuno tra il pubblico inizia a smanettare col cellulare, mentre dalle casse fuoriesce inarrestabile la voce poliedrica di Holly. Un lieve mormorio, un fraseggio sicuro e melodico, un’esplosione lacerante. Ogni espressione vocale viene passata attraverso una fitta catena di effetti sintetici, riverberanti, detonalizzanti, riversanti, che plasmano la voce fino a fonderla con l’intero tappeto sonoro. Della timbrica naturale di Holly resta solo l’inaudito ricordo. Benvenuti nel mondo digitale.
Di cosa sono fatte le trame sottili, nervose e imprevedibili, di questo complesso tappeto sonoro? È stato detto e stradetto: yin e yang, armonia degli opposti, Berghain meets Darmstadt. House e minimalismo, techno e astrattismo, musica elitaria e musica da dancefloor. Ecco la Piattaforma che dà il titolo all’album, il punto di scambio e di contaminazione, che ha visto Holly crescere artisticamente tra le frequentazioni della night-culture berlinese e gli studi presso lo Stanford University’s Center for Computer Research in Music and Acoustics (buon esempio di come le accademie non siano sempre un male per una mente creativa). Musica inclusiva, fatta per unire, confondere gli antipodi.
Ancora prima i suoni, che attingono da quella quotidianità traboccante pop-up improvvisi e trilli di Skype, ronzii del computer e unghie lunghe che ticchettano sul touchscreen; suoni campionati ed elaborati fino a perdere ogni contatto con l’originale, portati a un livello digitale e comune, come accadeva per la voce. Freddi e irritanti i rumori del nostro portatile? Tutt’altro.
«It’s actually a hyper-emotional instrument; it has more emotional content than a violin could ever dream of» spiega in un’intervista al Guardian. Frase certamente provocatoria, ma che coglie un punto abbastanza banale da essere sottovalutato: il nostro vissuto emozionale, con le sue beghe e i suoi compromessi, passa anche (innanzitutto?) attraverso lo schermo, le chat e le notifiche. Un passo di lato rispetto alla retorica della cosiddetta “vita vera”, sulla quale i rapporti faccia a faccia avrebbero l’esclusiva. Il computer è ormai la nostra seconda dimora, e meriterebbe una diversa attenzione nel dibattito sul diritto alla casa e alle relative tutele. Specialmente alla luce delle rivelazioni di Edward Snowden sulle intercettazioni del NSA, che stanno alla base di Home, canzone d’amore per una società post-Wikileaks. Commenta Holly: «It felt like even more of a violation than if someone went into my apartment, because it’s just my socks. There’s nothing that personal there. But if someone’s in my device, that’s my home, that’s where all my relationships live».
Come concretizzare in un live questo rapporto intimo e conflittuale tra uomo e macchina, nell’interazione con il pubblico? A questo ci pensa Mat e la sua precisa ricerca visuale. Sul maxischermo scorrono modelli 2D di persone, di cose, di parole. Il cibo è un tema ricorrente (che a noi milanesi piace tanto perché non se ne parla mai ultimamente), molta frutta e verdura, ogni tanto delle grosse bistecche.
Le parole sono quelle più diffuse nella videoproduzione di Holly, semplici, senza pretese. Love, per dirne una. E le persone… beh, le persone siamo noi, individui presi dal pubblico, fotografati e digitalizzati sul posto, in balia delle dita di Mat. Immagino sia stata un’esperienza alienante per chi è finito sullo schermo (non io per fortuna), appiattito come un cartonato pubblicitario, sbatacchiato qua e là contro ammassi di pere copia-incollate, sottofiletti zoomati e dezoomati, orge di cipolle e amore. E poi rigirati, messi sottosopra, incastrati per un malaugurato glitch nell’ennesima pera; abbandonati a se stessi, a fluttuare da qualche parte lungo uno sfondo panoramico stile Google Maps (deserti, città), o un’anonima tinta unita. Qualcuno ci ha messo la faccia, altri una parola, altri ancora la cena. Il risultato non cambia: è tutto fuori controllo.
Tu che sei finito crashato in quell’ortaggio, preferivi di no? Troppo tardi, non sta a te. E tu? moltiplicato quattro volte e subito sbattuto fuori cornice da quella fastidiosa manina del mouse? Non sta nemmeno a te. Sta a Mat, non fosse che anche Mat è dentro lo schermo, in un piccolo riquadro che lo proietta in tempo reale dalla sua webcam, che nemmeno un quadro di Velasquez. Anche lui sparpagliato in giro dai colpi di coda delle sue iniziative.
Sembra esserci in gioco il rapporto tra ciò che siamo disposti a rendere pubblico e ciò che siamo disposti ad accettare di fronte alle manipolazioni altrui, ai fraintendimenti, ai riposizionamenti scomodi (magari la persona a braccetto con la bistecca era pure vegana). Un invito a riflettere sul classico tema pubblico/privato, proprio/comune, ma questa volta a partire da un sofisticato sistema di oggettivazione (impossibile col solo medium-libro), che ci pone di fronte la questione senza mezzi termini. Anzi, senza termini punto.
Un’interazione col pubblico tutto sommato asimmetrica, no? Alla mercé di lei, che intanto continua a fare il bello e il cattivo tempo dei nostri animi, ora portandoci a un’introspezione quasi psicotica, ora facendoci ballare come collettivi di virus impazziti; e di lui, che nel frattempo ha dismesso i panni di signore delle icone per esplorare una scrivania in 2D ricoperta di computer, pacchetti di tabacco e altre cianfrusaglie. Asimmetrica? E invece no.
Abbiamo accennato prima a una scritta digitata da Mat a inizio concerto: sentitevi liberi di dire la vostra scrivendo a questo numero. Ma a che scopo? Dove va a finire quello che scrivo? Sul maxischermo davanti a tutti, ecco dove. Tra un brano e l’altro, non ci troviamo più di fronte ai visuals, ma a una semplice schermata di testo, Question & Answer. Le domande arrivano dagli spettatori (che sono quindi molto meno spettatori) e Mat risponde di pancia e con un certo acume. C’è chi chiede se i gatti siano sopravvalutati. «No, però ci sono diversi animali parecchio sottorappresentati». Ti senti osservato [scrutinized]? «Sì, ma essere visibile ti dà la possibilità di dire qualcosa». E poi la mia preferita: cosa ti fa essere così ottimista sul futuro? «THIS!» risponde. Questo! Tutto questo! Questa fusione tra palco e audience, questo feedback continuo tra concreto e digitale, tra macchine e corpi in movimento, tra noi e loro, loro e noi, ma che ne so?! Per me è stata semplicemente la miglior risposta che potesse dare a quella domanda.
Siamo quasi giunti alla fine. Non so cos’altro fare per irritare il mio tipo ideale di lettore (quello che ha altro da fare oltre a leggere), se non tirarla ancora un po’ per le lunghe. Non solo: tirarla per le lunghe a suon di pippe mentali personali e non richieste. L’articolo potrebbe tranquillamente finire qui. Quanto segue vuole essere in qualche modo una testimonianza (l’ennesima messa per iscritto) del lato umano di Holly e Mat, non musicale, non concettuale.
Cerco di farla breve. Finito il concerto faccio il punto della situazione, ma qualcosa non mi torna. Ripenso al loro ottimismo sul futuro e lo confronto con il live nel complesso, ma soprattutto con l’esperienza visuale. La mia prima impressione è stata più o meno questa: le persone e le cose venivano estrapolate dal loro contesto, tradotte in immagini piatte e buttate senza tante cerimonie nel marasma generale. Ma in questo modo non si rischia che la singola individualità perda completamente di significato? Riducendole a mere icone da manipolare, rigirare a piacere, draggare e droppare come una qualsiasi cartella sul desktop; non si rischia che tutto quanto perda drammaticamente di valore? È davvero questo il futuro digitale che ci si prospetta?
Sto affogando i miei pensieri nel classico bicchiere di vino e nelle orecchie della mia complice, che è lì con me; quando vedo passare proprio loro, Holly e Mat, a pochi metri dal nostro tavolo. Stanno chiacchierando di fronte al camioncino dei panini e penso: boh, tanto vale chiederlo a loro. Ci avviciniamo, e neanche il tempo di complimentarci che subito Holly ci allunga la mano e si presenta, affabile. Un po’ tentennante parto con la domanda. Mi ascolta paziente, con un’attitudine che mi fa pensare alla sua attività didattica (alla Stanford insegna anche, oltre a tenere lezioni in giro per il mondo, sorride. Data la natura informale e imprevista della chiacchierata, non ho con me il registratore, ma cercherò di essere il più accurato possibile. L’idea è di portare nel lavoro visuale elementi familiari a tutti, contestualizzandoli all’interno di quel caos che caratterizza la nostra esperienza in rete, fedeli alla realtà telematica. Fa poi un cenno a Mat, appena uscito da un’altra conversazione. Una stretta di mano e mi parla del lato più tecnico della faccenda, aprendosi come lei in un sorriso raggiante. C’è una ragione innanzitutto pragmatica dietro la scelta di lavorare su materiali bidimensionali: il suo software gli permette di computare velocemente solo immagini 2D, non modelli tridimensionali delle persone in sala, consentendogli inoltre di improvvisare durante i visuals.
Mi fermo qua per non rischiare di mettere le mie interpretazioni in bocca a loro (data la precarietà del mio supporto-memoria… siamo sempre lì, al rapporto tra uomo e macchina). I punti fermi sono tre: familiarità, realismo e senso pragmatico. Se ripensiamo al live queste componenti ci sono tutte. Non si tratta affatto di sminuire la singola individualità, ma di renderla protagonista attraverso una tra le tante selezioni possibili.
Da quale ambito varrà la pena attingere? Nell’archivio sconfinato di volti famosi ed eventi planetari, Holly e Mat scelgono il terzo escluso: il loro pubblico qui ed ora, coi suoi cibi e le sue parole quotidiane. Ma questa scelta ha un prezzo: sottostare alle regole del computer e del web, con i suoi pop-up improvvisi, i continui aggiornamenti, una decina di siti sempre aperti e un feed di informazioni che scorre senza alcuna logica apparente. Il caos nel quale sguazziamo tutti i giorni e che chiamiamo casa.
È questo che ci viene sbattuto in faccia in quella musica e in quei visuals: un disordine quotidiano che pretende una chiara e netta presa di coscienza, che richiede un sì o un no senza vie di mezzo. Rappresentarlo richiede dei sacrifici tecnici e una buona dose di capacità improvvisativa, necessari per sincronizzarsi con ciò che avviene nel preciso istante in cui avviene; per non rimanere nell’astrazione posticcia di un tempo che non è più, e per non cadere nelle fantasie precipitose di un tempo che non è ancora. Abbiamo parlato tanto di futuro, ma alla fine salta fuori che il vero punto nevralgico è un altro: il qui ed ora. THIS!
Già dal precedente album Movement, si era intuito che qualcosa di grosso bolliva in pentola. Platform si rivela l’esito fruttuoso di due anni abbondanti di duro lavoro, di ricerche e collaborazioni. Ma anche due anni di intensa complicità tra due persone serie e francamente splendide. «I’m interested in what it sounds like to be making music in 2015» ha detto Holly al Guardian. Non nel 2014, non nel 2016. Oggi. E si sente se una cosa è prodotta oggi. Perché oggi è tutti i giorni. (Profondità finale aggratis, chiusura).
Holly Herndon e Mat Dryhurst alla Fabbrica del Vapore