Le fredde notti di inverno ce li fanno vedere di più: sono coloro che dormono per strada e sono tanti. A Roma in una manciata di mesi sono morti in 10 ed è suonato l’allarme. Tra Londra e l’Italia e in giro per l’Europa qualche numero sulla popolazione degli homeless – molto cresciuta a causa della crisi economica e delle politiche di austerità – qualche intelligente realizzazione di ripari temporanei e gli interrogativi che restano aperti
L’amaca è lì, stesa tra due pali, davanti all’ingresso della metropolitana, stazione di Chalk Farm, zona nord di Londra, tra Camden e Hampstead. Accanto, seduto per terra su un sacco a pelo che ha visto giorni migliori, il suo proprietario, creativo homeless che con quel plasticoso giaciglio evita che un po’ del freddo pungente della notte travasi dal suolo alle sue ossa. È’ ‘solo’ uno dei tanti, se ne vedono moltissimi pure di giorno, anche e forse soprattutto in pieno centro: riferisce il Guardian che l’ultima indagine ha stimato in 3103 – ed è un record mai raggiunto prima- le persone – rough sleepers – che da luglio a settembre 2018 hanno dormito all’aperto a Londra. Secondo Combined Homelessness and Information Network il loro numero è aumentato del 17% rispetto allo scorso anno e, secondo le charities che si occupano di senzatetto, la responsabilità principale va cercata nella mancanza di alloggi a prezzo contenuto. Peraltro, a girare per Londra, e a vederne tanti, tantissimi che anche in pieno giorno stanno nei sacchi a pelo con le loro povere cose accanto viene da pensare che siano molti, molti di più.
Con negli occhi il tipo dell’amaca di plastica, sono andata a cercare altri numeri e altre spiegazioni: in tutta l’Inghilterra, secondo i dati ufficiali, il numero delle persone senza casa (che includono coloro che dormono per strada ma anche chi sta in soluzioni abitative temporanee, incluse famiglie con bambini) è cresciuto del 169% dal 2010 ed difficile non vederci l’effetto di politiche che non si occupano abbastanza del diritto all’abitare, della sicurezza sociale, del sostegno alle fragilità e alle povertà e che hanno, su questi capitoli di spesa, radicalmente tagliato i fondi – si parla circa della metà – alle amministrazioni locali. Il dato che più mi ha colpito è un altro: essere senza casa significa vedere esattamente dimezzata la propria aspettativa di vita. In media un homeless inglese muore a 43 anni, un cittadino che dorme a casa propria a 86. Metà vita lasciata sulla strada, insomma. L’anno scorso, dati del Bureau of Investigative Journalism, 440 senza dimora sono morti in Inghilterra per strada o nei rifugi temporanei e i dati, avvertono i media, sono sottostimati. ‘È allarmante vedere la drammatica crescita di persone che dormono in strada a Londra…’ è il commento di Rick Enderson chief executive di Homeless Link’s.
Tornata in Italia, per una coincidenza non particolarmente strana – è inverno e le temperature sono basse, i giornalisti pigri userebbero l’abusata formula ‘emergenza freddo’ – mi accorgo che è un tema per qualche media anche qui, complice il fatto che a Roma si sono registrati in una manciata di mesi ben dieci morti di persone senza dimora, tra i quali Nereo, clochard ‘colto’ e popolare che se ne stava dalle parti di Corso Italia quando una macchina lo ha investito e ucciso. Dal Manifesto: “È un crescendo drammatico, sottolinea la Caritas. Due decessi a novembre, tre a dicembre e cinque nella prima metà di gennaio. Una carneficina. C’è un ritardo cronico delle istituzioni nel prendere in carico le persone più fragili’’. Anche a Roma c’è una questione terribile che riguarda la casa: 6700 sfratti per morosità nel 2017, è ancora la Caritas a dirlo. E c’è, in Italia, tutta la questione migranti a maggior ragione adesso che, in virtù del decreto sicurezza, i progetti chiudono e la gente deve uscire dai centri. A tutto questo si si aggiungono, vale sotto ogni cielo, le fragilità umane: la vita che piglia una piega storta, i legami che si rompono, il lavoro che non c’è più, un problema psichiatrico, la bottiglia come rifugio. Secondo i dati Istat, in Italia ci sono circa 50 mila persone che ogni giorno utilizzano servizi di mensa o di accoglienza notturna, il 25,7% sono giovani under 35, molti gli stranieri e, tra loro, soprattutto i giovani africani. Il fenomeno è stato in tutta Europa acuito dalla crisi economica: l’ong belga Fleantsa rivela che dal 2008 in tutti i paesi Ue, eccezion fatta per la Finlandia che ha adottato il piano nazionale Housing first, sono aumentati i senza dimora.
Se dunque gli homeless sono parte ormai abituale del paesaggio urbano – da quasi 20 anni a Milano si svolge la Notte dei senza dimora per sensibilizzare i cittadini – mi sembra interessante notare come architettura e design, qui e lì, in Italia e all’estero si stiano sempre di più occupando di questo segmento di popolazione e come stiano venendo fuori soluzioni dell’abitare per strada che nascono spesso in dialogo con loro, frequentemente e per una serie di motivi, restii ad usare i dormitori pubblici, laddove ci siano. Formule mobili, leggere, a basso impatto, che sembrano essere anche in linea con questo tempo di migrazioni e che dunque possono essere immaginate anche là dove passano ondate di profughi oltre che negli interstizi delle nostre città. Una delle più recenti arriva da Napoli, ha un nome e un aspetto quasi scanzonato: si chiama Scorz, è una sorta di casetta di cartone ondulato che si apre a fisarmonica, realizzata dalla ditta Formaperta di Nocera Superiore e pensata da un giovane designer, Giuseppe D’Alessandro, che ha studiato a Berlino, ha fatto volontariato con gli homeless ed ha incontrato lì il progettista Jasper Precht che lo ha aiutato a realizzare questa soluzione, dichiaratamente e politicamente, temporanea.
È una bella storia ed è diventata virale: la si può leggere qui, 40 senza dimora di Napoli l’hanno avuta in regalo nei giorni dell’Epifania, da tutto il mondo hanno scritto alla pattuglia degli ideatori per avere informazioni. A Londra invece a dicembre scorso una charity di Deptford, nel sud est della città, ha messo in piedi dei container che ospitano box di legno con un letto, un paio di mensole e una tenda per avere un po’ di privacy. Anche in questo caso, di cui si può leggere qui, a progettarli è stato un architetto, Reed Watts, selezionato in un concorso indetto dalla Charity Commonweal Housing per soluzioni temporanee da installare in edifici vuoti o inutilizzati.
Due ottimi e funzionali esempi, che hanno entrambi il pregio di guardare alla dignità di chi sta per strada e di cercare di alleviarne il disagio, e che, peraltro, sono significative espressione del ruolo sociale delle professioni legate alla progettazione. Non solo archistar e megaprogetti dunque, ma anche ricerca di soluzioni leggere che rispondono ad esigenze concretissime come ripararsi dal vento, dalla pioggia e dal freddo, poco viste e poco considerate perché arrivano dalle fasce più marginali delle nostre società. Ciò detto, restano aperti gli interrogativi.
Ci si arrende così alla realtà? In qualche modo rendere più sopportabile questa condizione vuol dire affermarla come ‘normale’ e ineludibile? Ce ne si fa invece carico, laddove le politiche pubbliche o la loro assenza seminano esclusione, aumentano il disagio, ignorano le fragilità? Se chiedessimo al signore incontrato a Chalk Farm, credo proprio che preferirebbe una di queste soluzioni a quell’azzurra plastica sbattuta dal vento freddo di gennaio sulla quale passa le notti.
Per noi invece, quelli che una casa ce l’hanno e nelle sere d’inverno ci tornano con il sollievo di trovare un caldo rifugio, resta – ed è meglio così- la domanda.
Ps. È stato curioso e interessante scoprire alla fine di questo articolo che, in risposta al concorso di idee lanciato nello scorso giugno dalla Società degli ingegneri e degli architetti di Torino per la progettazione di isole di accoglienza per homeless in città, la Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora abbia scritto una lettera aperta in cui, rivendicando un lavoro basato su soluzioni di Housing First che cercano dunque di togliere dalla strada i senza dimora, ha posto domande simili. La si può leggere qui.