L’artista tedesca Judith Hopf, che abbiamo già visto a Milano lo scorso gennaio alla Galleria Kaufmann Repetto con la mostra !Hear Rings!, torna con Up, la sua prima personale in un museo italiano, al Museion di Bolzano, un viaggio non troppo impegnativo che vale la visita sia al museo che alla città.
Quando si entra, o si prova ad entrare, a far parte di un campo sociale complesso come quello dell’arte contemporanea – con i suoi linguaggi, i suoi codici e le sue norme in continua e sottile mutazione – capita che si arrivi a pensare di poter cogliere qualsiasi opera al primo sguardo, come dei veterani ormai scafati, praticando in realtà un becero gioco di categorizzazione, se non un vero e proprio esame di aderenza alle regole del gioco. Capita così di sentir affermare con sicumera, per puro conformismo, che il tale artista è un genio, o veder bisbigliare con aria saccente, per pura superficialità, che la tale installazione è vuoto formalismo. Questo secondo caso è quello che mi ha introdotto al quarto piano panoramico del Museion di Bolzano, dove fino all’8 gennaio espone l’artista berlinese Judith Hopf. Sospeso però il giudizio, con l’ambizione perversa di farmene uno mio, capisco anch’io al primo sguardo – ebbene sì – che i sussurranti detrattori sono in realtà vittime di un tranello, che ci sono cascati e quindi, subito, sorrido soddisfatto.
La mostra di Judith Hopf si presenta con un impianto concettuale rigorosissimo, molto tedesco, fedele ai Beuys e ai Kosuth che neanche serve citare in loco, tanto li abbiamo negli occhi prima ancora che nella memoria accademica. Un muretto di mattoni attraversa, taglia e organizza lo spazio, dettagli anatomici e oggetti in mattoni scolpiti sedimentano a terra con la loro intrinseca pesantezza, isole cilindriche sospese contenenti videoproiezioni troneggiano in punti compositivamente strategici della sala, una nera struttura metallica complica l’ambientazione trascinando lo sguardo verso la vetrata che dà sul verde esterno, mentre solidi in cemento richiamano al basso con la precarietà dei loro sottili sostegni in acciaio.
Ma qui irrompe lo scarto a quella norma così rigorosa, apparentemente già vista, che fa capire come per la Hopf quell’essere un’artista formalmente perfetta è in realtà lo strumento per essere, a prescindere, inattaccabile. L’intera operazione, infatti, è in realtà una parodia, un gioco linguistico attraverso il quale Judith Hopf riesce a mettere in discussione proprio quel linguaggio che tanto abilmente mette in scena. Ma anche questo è riduttivo e non arriva a spiegare neanche in parte la carica empatica che, ad essere recettivi, fa vibrare assonanti corde interne. La parodia che agisce sul linguaggio rovesciandolo, andando in modo così efficace e brillante a decostruire gli schemi fissi di lettura e interpretazione, costituisce in realtà un linguaggio nuovo e autonomo che va a mettere in discussione schemi e categorie di giudizio, andando ben oltre la semplice autoreferenzialità del discorso sull’arte per arrivare a intaccare il concetto stesso di linguaggio.
Perché questo succeda sono però necessari proprio quel rigore e quella precisione su cui il lavoro della Hopf si fonda e da molti scambiati per accademismo. Come diceva Dario Fo, il rovesciamento di significati messo in atto dal giullare poteva scardinare un intero sistema, a patto però che fosse all’interno di una struttura linguistica estremamente rigorosa e tendente all’equilibrio. Lo spazio per l’improvvisazione va quindi regolamentato in funzione di quell’equilibrio, per cui se aggiungi devi anche togliere, se togli devi anche aggiungere. Solo così si arriva a costruire quel meta-linguaggio che, come il gramelot, simula perfettamente il linguaggio ufficiale per “sputtanarlo” (sic!). Con il lavoro di Judith Hopf succede esattamente questo: al di la della facciata di puro formalismo, se si sanno cogliere le molte ironiche strizzate d’occhio disseminate nell’allestimento si entra in un mondo ginnico e circense, dove grazie al rovesciamento si può raccontare l’errore, la precarietà, il gioco e il limite con sublime leggerezza. Un mondo disseminato di ostacoli, in cui questa ragazza non propriamente agile riesce con disinvoltura a compiere salti mortali e tuffi carpiati grazie all’agilità del pensiero, che propone contenuti complessi con eleganza, e all’agilità di spirito, che sovverte i significati con il raffinato gioco dell’ironia e quello ancor più difficile dell’autoironia.
Ed ecco allora che le pesanti forme in cemento e tondini sono in realtà pecorelle in gregge che sognano il prato sudtirolese, i corvi appollaiati sulla struttura metallica sono le scatole delle medicine, sagomate e riprodotte in porcellana, i video mostrano goffe uova antropomorfe e auto in acrobatiche scampagnate, le forme in mattoni sono pesanti piedi monumentali, inutilizzabili palloni da calcio, panettoni stradali col nasone e intrasportabili trolley dai manici e dalle rotelle in fragile terracotta, mentre il muretto che attraversa la sala, infida barriera architettonica, costringe tutti a cambi di direzione e gesti attenti e impacciati con un effetto di inclusione al contrario.
Una volta capito, il gioco della Hopf è irresistibile, con in più il godimento dell’essere entrato per una porta secondaria in quel meccanismo mai sfacciato né retorico. Una complicità che costruisce una relazione empatica il cui effetto, lungi dall’essere compiacimento estetico, è una riflessione profonda, amorevole e potenzialmente paradigmatica.
Judith Hopf, Up, Bolzano, Museion, fino all‘8 gennaio 2017