Qualcuno lo chiama l’ecomostro, molti lo guardano con paura. Doveva essere un residence di vacanza, ora ci vivono pakistani, indiani, senegalesi
Un edificio alto. 480 appartamenti, etnie diverse che condividono lo stesso spazio. Molti immigrati. Un grattacielo, un ecocomostro, secondo molti. Sembra strano pensare che in Italia ne possano esistere: eppure, a Porto Recanati, nelle Marche, in provincia di Macerata, esiste. E ha un peso. Sociale, prima di tutto. Si chiama Hotel House, la torre di Babele cruciforme. La mia tesi di laurea.
Hotel House nasce dalla volontà di Antonio Sperimenti, capo del progetto, che negli anni ‘60 – quelli della speculazione edilizia – voleva realizzare un sogno: il villaggio utopistico dell’uomo moderno in vacanza, un residence che fosse casa, ma che potesse avere i confort di un hotel per italiani benestanti. L’idea s’ispira all’architettura razionalista di Le Corbusier. Poi, qualcosa va storto: giugno 1973, la ditta responsabile del progetto dichiara il fallimento e Antonio Sperimenti, si toglie la vita. I lavori s’interrompono di botto. Hotel House si smembra, diventando lentamente una città fantasma: luogo sospeso, deriva urbana, tana di chi non ha casa, di chi non ha voce, rifugio di prostitute, mafiosi, politici corrotti, clandestini.
Hotel House e i dimenticati. Decido di farci la mia tesi per l’Accademia .I luoghi sospesi hanno sempre stimolato la mia indagine artistica. Eterotopie, le chiama Michel Foucault: “Le eterotopie spaventano perchè spezzano e aggrovigliano la sintassi lineare e interrompono qualcosa di quotidiano, ordinario”. Hotel House è una città invisibile, come quelle mitologiche che racconta Italo Calvino. Sono questi i non luoghi, non se ne parla, non danno fastidio.
Estate 2014, è il primo di luglio. Ho steso una sceneggiatura intuitiva, ho un fitto calendario di riprese da rispettare: esterni, interni, interviste, momenti di vita quotidiana, etc. La mia idea è di lavorare direttamente sul campo, che sia la vita stessa, così ruvida, questo film. Ho bisogno di partire dalle persone, di creare delle relazioni per farmi conoscere. Incontro Katiusha, una quarantina d’anni, dolce e disponibile, italiana convertita all’Islam per volere suo e del marito, «una scelta,un cambiamento, un amore», dice. Mi racconta la sua vita, il lavoro, la dura legge dell’Islam. Ha molta fede. Decido che la sua storia sarà l’apertura del mio film. In totale giro, da sola, trenta giorni. Non mancano i dubbi e le paure. Ogni giorno però sento e vedo il mio progetto prendere forma sul campo, raccolgo le testimonianze, il montaggio sarà una fase successiva di rielaborazione di questo vissuto. Ho la mia telecamera, la mia curiosità, la mia voglia di confrontarmi. Qualcuno è curioso, altri scettici. Sono quasi tutti musulmani, stanno praticando il Ramadan. E’ un momento delicato, sacro. Faccio alcune riprese davanti alla Moschea, rischio. Cerco di non essere troppo invadente.
Ricordo l’odore dei diciassette piani. Un palazzo infinito, un labirinto cosmopolita, lunghi corridoi, finestre bucate dai proiettili, bambini che giocano divertiti, nonostante tutto, l’odore intenso del curry, giovani che pregano piegati su se stessi, concentrati, devoti. Tamburi che suonano a ritmo incessante. Parole, accenti, dialetti, pronunce. Qui le persone si accettano e nonostante le difficoltà culturali, indiani, pakistani, senegalesi, italiani, musulmani, buddhisti, ebrei e cristiani riescono a definire la vita insieme, all’interno di questa Babele postmoderna. Si rispettano, si conoscono, anche se la gente che vive qui intorno è prevenuta, ha paura. Perché non conosce: l’ignoranza è l’arma della paura.
In Accademia ho sempre realizzato progetti di carattere audiovisivo. In questi anni ho letto Foucault, visto i film di Bergman, Pasolini, Godard, Marker, Fellini, Herzog. Le loro opere, questa ricerca intima tra l’oscuro e il reale m’intriga e ho iniziato ad indagare periferie, ghetti, ex manicomi, luoghi abbandonati. Hotel House è un progetto sperimentale: è un ensemble di suggestioni. L’occhio fotografico s’intreccia con quello antropologico. Non volevo essere didascalica, classica, coerente. Quel luogo, quelle storie non lo permettevano. Ho raccontato la dimensione fisica ed emotiva di questo posto, le sue geometrie inquietanti, metafore di una vita scissa, interrotta. Alcuni docenti hanno considerato Hotel House un lavoro molto interessante, di ricerca, altri, un po’ scettici, hanno criticato la mancanza di una struttura lineare.
Mi sono laureata con il massimo dei voti, riconosco a me stessa di essere stata coraggiosa, di aver lavorato con passione, seppur con alcune lacune. Sono convinta che questo sia solo l’inizio: la mia ricerca non finisce qui.
Foto: Claudia Galeazzi