Andrée Ruth Shammah mette in scena una commedia nera di Eugène Labiche: dietro, e dentro, il sorriso risuonano note amare, e anche un po’ inquietanti
Di fronte all’opera di Eugène Labiche, si sono consolidati due opposti orientamenti critici. Per qualcuno i suoi testi sono solo meccanismi comici che nascono senza altra intenzione che non sia quella di suscitare il riso: i personaggi che si agitano al loro interno non sarebbero altro che maschere prive di sostanza reale e contenuti sociali.
Per altri, tra le righe delle commedie di Labiche si nasconderebbe anche una descrizione critica della Francia del Secondo impero. I meccanismi comici sarebbero dunque il veicolo di intenzioni di critica sociale e anche di moralizzazione: uno “specchio”, secondo Philippe Soupault, che avrebbe dovuto far inorridire i francesi del tempo.
Aderendo a uno o all’altro approccio, i registi possono accostarsi ai testi di Labiche traendone spettacoli di natura persino opposta. Tra le innumerevoli opere di questo autore, Il delitto di via dell’Orsina, facendo girare l’intrigo non intorno alle solite questioni di tradimenti di coppia, ma intorno a un omicidio, è uno dei testi che più di altri si presta alla lettura del secondo tipo, quella “seria”, che attribuisce a Labiche intenti critici. Tra gli allestimenti storici è, ad esempio, da segnalare quello di Patrice Chéreau, che in questa direzione aveva spinto parecchio l’acceleratore.
Il testo – detto brevissimamente – mette in scena due rispettabili borghesi che, all’indomani di un banchetto, si risvegliano con le mani sporche di carbone, un vuoto di memoria provocato dall’alcol e la convinzione, motivata da un curioso convergere di circostanze, di aver assassinato una giovane donna, una carbonaia. Non è uno spoiler dire che alla fine si scoprirà che sono innocenti: lo spettatore sa bene che il punto d’arrivo sarà inevitabilmente quello.
Il fatto è che tra il punto di partenza e quello d’arrivo, i due bravi borghesi avranno modo di rivelare la loro vera natura e uno di loro, per salvarsi, non si farà scrupolo di tentare di ammazzare per davvero un paio di altre persone. Secondo Chéreau, il finale accomodante era un obbligo dettato dalle convenzioni teatrali del tempo ma si trattava di una giustapposizione rispetto al nucleo vero del testo, contenuto nei passaggi più sulfurei, quelli in cui i borghesi si rivelano disposti a qualsiasi cosa pur di non perdere la loro posizione. Era quindi intervenuto pesantemente sul finale perché le “vere” intenzioni di Labiche, sfrondate dal lieto fine, potessero emergere con più evidenza.
Andrée Ruth Shammah è intervenuta sul testo di Labiche con più delicatezza di quanto non avesse fatto Chéreau a suo tempo, ma lo ha comunque utilizzato con una certa libertà, interpolandolo con altri testi dello stesso autore e lasciando che ciascuno degli interpreti (Massimo Dapporto, Antonello Fassari, Susanna Marcomeni, Antonio Cornacchione) si appropriasse del proprio personaggio adeguandolo alla propria identità, e alla propria storia (ci sono momenti in cui sembra che il Dapporto in scena sia Carlo…).
Il principale intervento testuale – oltre alla riscrittura dei couplets – riguarda l’aggiunta di un personaggio, quello dell’anziano servitore giunto all’ultimo giorno di servizio (nell’Affaire de la rue de Lourcine il servitore è solo uno, Giustino): la livrea, il motivo del passaggio di consegne e il consiglio finale dato al giovane sostituto arrivano da altri testi di Labiche. L’innesto funziona molto bene: in particolare il consiglio finale introduce nella pièce sfumature amare che integrano con grande finezza gli sviluppi principali.
La regista ha deciso di spostare la collocazione temporale dell’azione, lasciando comunque un certo margine di vaghezza: siamo certamente in Italia, in un periodo che, a giudicare da arredi e abbigliamento, potremmo far risalire alla prima metà del Novecento. Il tempo è un elemento chiave della pièce. L’equivoco che porta i due protagonisti a credersi responsabili dell’omicidio nasce infatti da uno scambio di giornali di date diverse.
La cronaca nera, dice Giustino prima di dare il giornale sbagliato, è sempre la stessa: similmente, noi spettatori di oggi dovremmo essere portati a pensare che le azioni a cui stiamo assistendo riflettano moventi – la difesa ad ogni costo della posizione, il rispetto delle convenzioni, il bisogno di marcare le differenze sociali – che non riguardano solo il tempo in cui il testo fu scritto e il tempo in cui viene messo in scena.
3Gli “a parte” che Labiche utilizza qui, come in altri suoi testi, in grande abbondanza, e persino con insistenza, sembrano diventare lo strumento per chiamare il pubblico dentro l’azione e renderlo osservatore partecipe al pari dalle sagome che costituiscono un elemento caratterizzante della scenografia.
Senza forzature e appesantimenti ideologici, ma mettendo al centro, come sempre nei suoi lavori, il piacere del teatro, Andrée Ruth Shammah è riuscita a fare in modo che dietro, e dentro, il sorriso risuonassero anche note amare, e persino un po’ inquietanti.