Un giovane Verdi diretto da un giovane Mariotti, dal gesto brillante e deciso. Peccato la regia di Hermanis che “paralizza” le scene tra tableau vivant e pitture veneziane
«Quant’è bella giovinezza», che per fortuna in Scala non sempre «si fugge». Mai come quest’anno al centro della stagione sta un trentenne: parliamo di Verdi, dopo Giovanna d’Arco, con I due Foscari fino al 25 marzo.
Così come trentenne è per una volta il direttore d’orchestra – solo una settimana fa a dirigere c’era George Prêtre nei suoi splendidi 91 anni. Michele Mariotti, fresco di inaugurazione a Bologna con Attila, prosegue la sua impeccabile esplorazione delle partiture verdiane pre-Rigoletto.
Brillante e sintetico, Mariotti dirige con carattere affine ai tratti dell’opera, che più di ogni altra sembra finire prima di cominciare: lì nel preludio è già detto tutto, in quello scambio struggente tra clarinetto e flauto, capaci da soli di zittire le convulse ondate orchestrali. Sono i motivi dei personaggi, ricorrenti ma non wagneriani, su cui Mariotti si concentra con commovente introspezione. E il dramma è sempre a fior di bacchetta, pur nell’assenza di qualsiasi evoluzione psicologica.
E se persino Verdi riconosceva un «color troppo uniforme» dell’opera, si può dire che il regista Alvis Hermanis l’abbia preso alla lettera, modificando al limite la tinta fosca – cupo si dice di clarinetti e fagotti all’inizio del primo atto – nello scialbo, monocromatico beige diurno delle scene.
Hermanis porta in Scala la Hayez-mania cominciata alle Gallerie d’Italia, paralizzando cast e spettacolo tra tableau vivant e rassegne antologiche di pittura veneziana – in particolare L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari con la propria famiglia di Hayez. Una specie di copia del suo Trovatore di Salisburgo, condotta però senza carattere né ispirazione: una regia esclusivamente decorativa, risolta con un collage che sembra composto di fretta. Di tanto in tanto zampetta sul palco un gruppo di mimi, a doppiare i cattivissimi Dieci del consiglio veneziano, baldanzosi vogatori o ballerini ingonnellati di animo donnesco.
Doge dell’opera e orgoglio di ogni foniatra, Placido Domingo recita la sua parte ormai da coetaneo di Francesco Foscari. E sembra che sia proprio lui a prendersela con chi gli chiede di abdicare: «Da me non l’otterrà forza mortale!», dice con inquietante straniamento brechtiano – è Foscari o Placido che parla? Nel finale riesce a turbare gli animi nonostante il pigiama che ha indosso. Non sarà baritonale, ma è portentoso: lo aspettiamo tra dieci anni per il nonagenario inquisitore di Schiller.
Contestata da un loggione troppo severo – come del resto il direttore, per un’idiosincrasia di suoi affezionatissimi nemici -, Anna Pirozzi ha in effetti un volume di voce che a volte sfugge al suo controllo, ma anche senza raffinatezze sa costruirsi il suo personaggio. Francesco Meli è sempre più perfetto nei ruoli di tenore antieroico e di attitudine riflessiva pre-novecentesca. Gli manca ancora Don Carlo, parte per cui sarebbe forse il migliore al mondo.
Immagine di copertina @ Marco Brescia & Rudy Amisano