Secondo J.D. Salinger comunicare è difficile. Lo pensava anche in gioventù, quando scrisse questi tre brillanti racconti
Strano come Jerome David Salinger abbia dovuto penare diversi anni prima di poter raggiungere i dorati lidi del The New Yorker; ancor più assurdo come quello stesso autore, una volta toccata la fama mondiale attraverso romanzi quale Il giovane Holden e Franny e Zooey, abbia poi deciso di ritirarsi a vita privata attraverso un silenzio ininterrotto fino alla propria morte, avvenuta nel 2010. Le spiegazioni di questo comportamento, con molta facilità, compaiono tutte nelle sue opere, anche nelle primigenie.
Tre di queste, venute alla luce sotto forma di racconto e fino ad oggi sconosciute al pubblico italiano, sono state di recente edite da Il Saggiatore a più di settant’anni dalla loro apparizione oltreoceano.
I giovani, eponimo della raccolta, comparve nel 1940 sulle pagine di Story, un periodico a bassa tiratura, e fu il primo lavoro dell’autore americano ad essere stampato. Ambientato durante un tipico party adolescenziale di fine anni Trenta, tra cocktail, fumo e ammiccamenti, sciorina il tanto fitto quanto sterile dialogo tra Edna e Bill.
Va’ da Eddie apparve per la prima volta su un giornale universitario del Kansas, sempre nel 1940, e propone una narrazione più dinamica, seppur sia ancora la comunicazione/non comunicazione dei personaggi a colpire maggiormente. Il serrato scambio di battute tra i fratelli Bob ed Helen è incalzante e scenografico: il lettore si trova trasportato al momento clou di una vicenda il cui retroscena è volutamente taciuto – Hemingway docet –, ma ciononostante l’unico interrogativo che resta dopo la conclusione non è “come si è arrivati a questo?”, bensì “cosa accadrà successivamente?”.
Una volta alla settimana è il recenziore dei racconti – anche questo pubblicato da Story, ma nel 1944 – e in esso è già intravedibile l’ombra della Seconda Guerra Mondiale, cui Salinger aveva partecipato. Protagonista, infatti, è un uomo in procinto di partire per il fronte, Richard, il quale si accomiata dalla moglie tentando di strapparle la promessa di accompagnare al cinema zia Rena, una donna anziana e persa nelle proprie riflessioni, almeno una volta alla settimana. L’incomunicabilità dei tre personaggi, al di là dell’apparente premura del nipote, fa da sfondo anche a questa narrazione.
Com’è evidente, il filo conduttore dei racconti è il paradosso dei dialoghi: nella narrazione, essi superano di gran lunga le descrizioni, eppure sono fini a se stessi, non permettono una reale comunicazione. Gli interlocutori non trasmettono né ricevono alcun messaggio: la loro è una disperata affermazione del nulla. È come se i personaggi parlassero solo per mantenere – o instaurare fra loro – un minimo legame, ma proprio tutto questo scambio di botte e risposte vano, infecondo e distruttivo non fa altro che decretare l’insanabile frattura.
La lettura dei racconti è certamente rapida ma non semplice – come sottolinea anche Giorgio Vasta nella ricca postfazione. Ci si trova di fronte a dei piccoli capolavori, a dei guizzi di genio che anticipano temi presenti nelle opere successive, dunque non si può pretendere di chiudere il libro e tornare tranquillamente a ciò che si stava facendo prima; bisogna misurarsi con riflessioni corpose, che evidenziano quanto ciò che l’autore ha narrato sia altamente accostabile alla quotidianità.
Delle migliaia di parole con cui ogni giorno veniamo bombardati, quante davvero lasciano in noi un segno? Di sicuro poche; in certi casi, dunque, è preferibile il silenzio.
E Salinger questo l’aveva indubbiamente capito.
Immagine: Happy birthday mr. Salinger di Simone Pacini