Il direttore d’orchestra, al regio di Torino con I Lombardi alla prima Crociata, sottolinea le spinte romantiche dell’opera, la sua varietà di forme e contenuti. Grande successo per il cast, da segnalare Francesco Meli (Oronte) e Angela Meade (Giselda)
È finito addirittura in un capitolo dei Promessi sposi il poeta Tommaso Grossi, buon amico di Manzoni e autore di quest’«epica diavoleria di crociate e di lombardi» da cui Giuseppe Verdi insieme a Temistocle Solera avrebbe tratto la sua quarta opera, I Lombardi alla Prima Crociata. Ora in scena con magnifiche cure musicali al Teatro Regio di Torino fino al 28 aprile, si scopre che l’espressione manzoniana vale anche per l’opera di Verdi, che è giovanile, la prima ufficialmente “di galera” ed è davvero una «diavoleria». Soprattutto per il suo modo di raccontare la storia, con iniziale minuscole o maiuscole a piacere, sempre con qualcosa di eccessivo, di irregolare, e che in molti hanno chiamato, a torto, volgarità.
Certo la musica per banda è onnipresente, così come le cabalette selvagge, le melodie all’unisono e le trombe che chiamano alla battaglia. Ma la volgarità non c’entra, così come non c’entra la raffinatezza di tanti altri passaggi: dalle frasi del quintetto del primo atto, costruite per scortare pensieri e parole di ciascun personaggio, al vero e proprio mini-concerto per violino e orchestra che dà inizio all’ultimo atto. A voler sommare e sottrarre i passaggi “corretti” e “scorretti”, almeno secondo un gusto non meglio precisato, si raggiunge probabilmente il pareggio, risultato non significativo. Anche se forse un’opera andrebbe giudicata dall’interno dell’ambito espressivo che lei stessa impone, legge che vale per Verdi come per Lloyd Webber.
Così i Lombardi, con la loro rappresentazione del sacro e del triviale, dalle luci del paradiso fino all’antro di una caverna infernale, si rivela il trionfo della volontà verdiana, certo giovanile, ma molto ben definita. Un’opera dalla coralità possente, a cui manca la tinta unica del precedente Nabucco perché ha una partitura più che mai eterogenea che tuttavia tiene in piedi una trama sgangherata, capace di stimolare la fantasia di Verdi nel descrivere questo lombardo vagabondare alle porte di Antiochia.
La riflessione sulla sperimentalità dei Lombardi attraversa la lettura di Michele Mariotti. Il direttore prende molto sul serio gli eclettici sussulti musicali di Verdi: non cerca di appianarli o di correggerli, e anzi sottolinea la varietà di forme e contenuti dell’opera, le sue spinte romantiche e le meccaniche inesorabili. Con Mariotti si capisce che quest’opera fatta di numeri chiusi è in realtà aperta, nel senso che è espressione di un disomogeneo, appassionato divenire artistico. Curiosamente la sua esecuzione dei Lombardi non si apprezza tanto per le anticipazioni di tutti i Rigoletti, Trovatori e persino Otelli lontani o lontanissimi a venire, vale a dire per il solito, stracitato “laboratorio verdiano”. Anche se molte pagine, trovate e atmosfere saranno riprese con quella maturità artistica che tutto consente e tutto giustifica, Mariotti sa far sentire al pubblico l’ispirazione iniziale. Perché la musica di Verdi nasce grande, per dirla alla Severino, e anche se Mariotti non è stato il primo a scoprirlo, di certo lo ha capito molto bene.
Grande successo per il cast, straordinario. Francesco Meli ha una dizione e una grazia nel fraseggio capaci di rendere interessante persino una parte insipida come quella di Oronte. Alex Esposito è un elegante «uom della caverna», villain convertito come un Innominato alle crociate, e riesce nell’impresa non facile di restare coerente sia come signore sia come eremita. La sorpresa di questa produzione è senz’altro Angela Meade, la cui Giselda, senza particolari raffinatezze, colpisce per la potenza degli acuti e per il volume della voce e trionfa dopo aver obnubilato le menti con le sue ampie onde sonore. Buoni i comprimari, Giuseppe Gipali come Arvinio, voce non grande ma di classe, Lavinia Bini come Viclinda, Antonio Di Matteo come Pirro, Joshua Sanders, Giuseppe Capoferri e Alexandra Zabala. Magnifico il coro diretto da Andrea Secchi, in quel “Va, pensiero” dei Lombardi che è “O Signore, dal tetto natìo”, ma soprattutto nel coro che apre il terzo atto “Gerusalem… Gerusalem… la grande”. Buona prova del primo violino Stefano Vagnarelli.
Lo spettacolo di Stefano Mazzonis di Pralafera è, al suo meglio, illustrativo, anche se il meglio lo raggiunge solo di rado. Sembra mancare non dico un’impostazione, una chiave, o un’interpretazione dell’opera, ma anche solo una soluzione dei più semplici movimenti scenici, e in un’opera costruita sulle masse corali non è poco. La soluzione per la battaglia finale è la sequenza del lago ghiacciato dall’Aleksandr Nevskij di Eisenstein. Scene generiche di Jean-Guy Lecat, malissimo illuminate dalle luci di Franco Marri. Costumi, barbe e parrucche esilaranti di Fernand Ruiz. La produzione arriva dall’opera di Liège, di cui il regista è sovrintendente, ma nasce come Jérusalem, il rifacimento francese dei Lombardi, a cui è stata aggiunta per queste recite torinesi la Basilica di Sant’Ambrogio per la prima scena.