I luoghi dell’immaginazione per comporre Elsa Morante

In Copertina Teatro

Al Teatro Fontana, un suggestivo documentario teatrale racconta le pagine più sconosciute e intime della biografia di Elsa Morante, che dall’adolescenza nomade arriva alla pubblicazione del primo romanzo. Un lavoro attento e potente, in cui convincenti attori si trasformano, con devozione, nell’autrice e nel suo specchio di coscienza

Di cosa è fatta una vita, e dunque, a posteriori, la sua ricostruzione, la biografia? Di parole, certo, più che di fatti. Soprattutto se sono quelle di una scrittrice, anzi, scrittore, come preferì farsi chiamare Elsa Morante per liberare se stessa e la sua narrativa dalle gabbie strette della narrativa sentimentale a cui erano condannate le donne, ma forse anche per rispondere a quell’intimo riconoscersi come un ragazzino scanzonato e indipendente, come il suo Arturo. O forse..Antonio, l’altro sè che l’accompagna nella sua ricerca di sè stessa che va in scena al Teatro Fontana, a firma di Tatjana Motta, Secondo cui, però, siamo – ed Elsa Morante soprattutto è – qualcosa di più e oltre le parole che ha consegnato: è gli spazi che ha abitato, nella loro concretezza sobria quando non apertamente povera – un letto e una scrivania – e nella loro fumosa evocatività – la sua mente e la macchina da scrivere. Siamo costretti a immaginarle, in effetti, quelle stanze spoglie e cambiate troppo in fretta. Perchè sono avvolte dallo stesso buio che – per sua scelta, spesso, Morante ha lasciato cadere sulle prime fasi della sua vita, a partire dalla fuga da una villetta di Monteverde, forse dai muri rossi, e da una famiglia che, tra una madre dura e un padre non suo, non riconosceva. Michele di Giacomo e Tamara Balducci la inseguono, nelle strade di Roma, cercando i suoi passi con l’occhio vigile e invadente di una telecamera in quartieri in cui i muri rimandano gli echi delle voci dei poeti, degli autori, degli amici, che negli anni hanno rotto il guscio di solitudine (scelta o subita?) che tradizionalmente si attribuisce a Morante. Pasolini, Ginzburg, Visconti, Garboli e – ovviamente – Alberto Moravia. Ma anche tutti loro, in questa ricostruzione, restano meritoriamente una evocazione di futuro.

Il faro che cade su queste Dodici stanze per Elsa Morante, illumina l’Elsa di prima: la ragazza che non ha di che mantenersi, la giovane riottosa che s’innamora suo malgerado di chi ha ottenuto la fama e la devozione che lei sogna per sè, la giovane moglie nascosta nelle campagne di Fondi per sfuggire ai fascisti che ricercano il consorte, famoso quanto ebreo, e che torna nella roma delle bombe (che poi tratteggerà ne La storia con ineguagliabile vividezza) per portare indietro qualche vestito caldo e soprattutto la sua eredità di scrittrice, o quel che poi ne sarà soltanto l’inizio, quel Menzogna e sortilegio che le varrà il premio Viareggio. La Elsa Morante che questo lavoro porta in scena lascia fuori la grande autrice e le pagine più fortunate e frequentate, e con meritoria acutezza chiude un anello che parte da questo romanzo e arriva ad Aracoeli, il romanzo ultimo del ritorno alle radici, al materno negato che forse – portando in scena un uomo che non è un consorte nè un parente ma una forma di fantasmatica altra coscienza, questo spettacolo fa esistere e al tempo stesso sovrappone alla multiformità che Morante rivendicava per sè. Con gli strumenti, si badi bene, della sola immaginazione. Che è, in fondo, l’unico luogo dentro cui si può davvero provare a ritrovare i suoi luoghi, che adesso se esistono, hanno solo la forma posticcia di ricostruzioni, trasportate in luoghi istituzionali come la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, dove tutt’al più le si può ammirare ma non toccare.

Serve allora la fantaasia, per vedere Elsa, diventare lei, coi suoi centinaia di quaderni rossi a ingombrare stanze di pensioni dove cerca se stesse e la sua vena d’autrice; per sentire le voci dei suoi protagonisti che – forse da qualcosa di molto vicino alla sua vita – vengono a lei come pirandelliani personaggi in cerca d’autore, a farle da specchi che nascondono e custodiscono il segreto di quel che verrà. Così, quello che si consuma tra le strade di Roma, è un viaggio in bilico tra sogno e incubo, suggestivo e denso, a dimostrare che, anche in teatro, si può salvaguardare la dimensione esatta del documentario – aperto agli esterni, soprattutto se sono quelli densi di memorie della capitale – ma senza sacrificare la dimensione onirica e narrativa che riporta sul palco proprio Elsa, le paure nascoste tra le righe e i compagni di strada, a cui forse, del segmento isolato da questo lavoro, manca soltanto Caterì dalla trecciolina, ma le sue magnifiche avventure sono forse, tra un trasloco e l’altro, della sua autrice, i cui primi personaggi, da Scricciolino a Povero cane, sono stati invece “scippati” da Guelfo Civinini, che sul Corriere dei Piccoli sostituisce il suo nome a quello dell’autrice, aprendole tuttavia le porte a un futuro in cui nessuno oserà più rimuoverla, in cui anzi sarà – spesso – l’unica donna che il canone letterario non può espungere.

E allora, mentre gli echi della guerra, “lo scandalo che dura da diecimila anni” – esergo che pretese sulla copertina de La storia, risuonano nel presente che viviamo fuori dal teatro, dentro, Balducci e Di Giacomo ci restituiscono, con devozione e originalità, a quarant’anni dalla morte, un emozionante e intelligente omaggio alla memoria della nostra più grande autrice (malgrado, puntualizza il testo, una critica ancora capace di sottovalutarla e dividersi) ma soprattutto l’eredità di una donna in costruzione, che con la fantasia ha saputo rompere i muri di qualsiasi stanza.

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