Lo sapevate che, al momento dell’uscita, fu un fiasco? E una gran pena per l’autore Giovanni Verga. Oggi rileggere i Malavoglia significa rientrare nella casa del Nespolo, ascoltare le antiche storie dei vinti che il mondo ‘pesce vorace’ si ingoia
Li abbiamo conosciuti sui banchi di scuola insieme a tanti altri personaggi che si sono stampati nella memoria collettiva. I laboriosi Toscano di Aci Trezza, noti alla piccola comunità siciliana prima che a noi, con la ‘ngiuria’ antifrastica di Malavoglia, sono andati ad aggiungersi ai numerosi altri che, una volta incontrati, nominiamo talvolta come fossero persone di famiglia.
La fortuna editoriale dell’opera, che pure seguiva i dettami del Verismo fortemente sostenuto da Luigi Capuana, il quale a sua volta attingeva dal Naturalismo francese sostituendo alla materia industriale quella ‘rusticale’ più tipicamente italiana, è stata lenta e altalenante.
Il romanzo, il primo del ‘Ciclo dei vinti’, prevede un’ambientazione di questo genere, un borgo marinaro della Sicilia centrorientale, Aci Trezza, frazione di Aci Castello, in cui si svolgono le vicissitudini di una famiglia di pescatori all’indomani dell’unità d’Italia.
Ha inizio proprio da questa pagina di storia lo stravolgimento dell’immobile serenità degli abitanti della ‘casa del nespolo’, comunità patriarcale composta da sette membri che si muovono sotto la guida del capostipite Padron ‘Ntoni, vedovo, l’ottavo.
L’editore imprenditore giornalista di origini triestine ma naturalizzato milanese, dal fiuto finissimo (ma non questa volta) Emilio Treves, che l’anno prima aveva dato alle stampe la raccolta Vita dei campi, nell’81 pubblica la prima opera verghiana del ‘Ciclo dei vinti’.
“I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo. Tranne Boito e Gualdo, che me ne hanno detto bene, molti, Treves il primo, me ne hanno detto male, e quelli che non me l’hanno detto mi evitano come se avessi commesso una cattiva azione”, così Verga all’amico Capuana.
Siamo nel 1881 e Verga sarebbe rimasto fino agli anni ‘20 l’autore della Storia di una capinera e di Una peccatrice.
E solo nel secondo dopoguerra verrà preso a modello dal Neorealismo, cinema in primis.
Luchino Visconti progetta un ‘trittico della miseria’ (pescatori, minatori delle zolfare, contadini), ma il viclo si conclude con il primo film La terra trema: attori non professionisti e dialetto siciliano stretto, liberamente ispirato a I Malavoglia. Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia.
Padron ‘Ntoni ha un figlio, Bastianazzo sposato con Maruzza, e cinque nipoti: ‘Ntoni, Luca, Filomena (detta Mena o Sant’Agata), Alessio (Alessi) e Rosalia (Lia).
Nel ‘ 63 ‘Ntoni, il maggiore, viene chiamato per la leva militare (per la prima volta un componente della famiglia viene arruolato nell’esercito del Regno d’Italia), vengono a mancare braccia robuste e indispensabili. È l’inizio della fine.
Padron ‘Ntoni a questo punto tenta una speculazione commerciale : acquista a buon prezzo dallo zio Crocifisso un carico di lupini da rivendere nel paese vicino, ma la ‘Provvidenza’, la piccola imbarcazione da pesca sorpresa da un fortunale, affonda con Bastianazzo e il prezioso carico
( che poi tanto prezioso non è visto che i lupini risulteranno avariati).
La morte del figlio, oltre che la rovina economica, provoca un graduale sgretolamento del tessuto familiare.
‘Ntoni, tornato a casa, non è più lo stesso. Ha visto la città, belle donne e bei vestiti e non trova pace, lavora malvolentieri ed è sempre di cattivo umore ; poco gli importa se la Provvidenza è da calafatare e il debito dei lupini da saldare.
Luca, partito anche lui,non fa ritorno dalla battaglia di Lissa, durante la guerra austro-prussiana chiamata pomposamente terza guerra d’indipendenza.
Maruzza (la Longa),indebolita dalla fatica e dai dolori contrae il colera e muore divorata dalla febbre. Mena, segretamente innamorata di Alfio e contraccambiata, viene promessa a Brasi Cipolla, ma non può sposarlo perché è diventata troppo povera e passa il suo tempo a disperarsi per il fratello che vive come uno sbandato e che dopo essersi messo nei guai finisce in prigione.
Filomena, Comare Mena ‘ non si vede, ma si sente, e sta al telaio notte e giorno come Sant’Agata’ dicevano le vicine. Già, Sant’Agata, patrona delle tessitrici e modello di laboriosità.
E inoltre ‘donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio’. Non certo una similitudine e neppure una metafora, solo una sequenza sapienziale che configge la ragazza, al pari della gallina e della triglia, a una funzione naturale.
Lia, l’ultima, ‘un po’vanerella’ fugge a Catania e finirà per prostituirsi.
Il vecchio patriarca, non più padrone dei suoi pensieri viene ricoverato all’ospedale dei poveri dove morirà lo stesso giorno in cui Alessi, che nel frattempo è riuscito a riscattare la casa del nespolo, è andato a dargli la notizia che lo porterà a casa.
Mena si prenderà cura dei figli di Alessi e Nunziata e dirà di no ad Alfio, ostinatamente: ‘ora non son più da maritare… Ho 26 anni ed è passato il tempo di maritarmi’.
‘Ntoni, uscito di prigione va a trovare gli unici rimasti della famiglia , soprattutto vuole rivedere la casa. Percepisce immediatamente la propria estraneità, il cane gli abbaia dietro e lui si allontana dal paese prima che faccia giorno. Straziante.
Questa la materia, trovare forma e stile adeguati a raccontarla è stato il vero tormento dell’autore, mutatis mutandis, Manzoni docet.
Tutto il bagaglio della tradizione deve essere ignorato e d’altra parte non è possibile scrivere in siciliano perché si tratterebbe di integralismo verista.
Insomma come attuare concretamente la teoria dell’impersonalità o eclissi dell’autore che dir si voglia?
Non sto qui ad affastellare categorie critiche, definizioni, tecniche narrative anche perché magari non ricordiamo tutto, ma Verga lo conosciamo. Dico però che rileggere l’opera equivale a fare una visita ad Aci Trezza, entrare nella casa del nespolo, ascoltare discorsi antichi , compresa la voce del narratore mescolata al coro, annotare proverbi (215 per l’esattezza), andare a rintracciare i termini materiali delle similitudini ambientali, osservare da vicino l’attaccamento all’immutabilità e constatare che chiunque pensi di mutar sorte per il meglio è destinato al fallimento.
Verga d’altra parte lo aveva scritto che ‘il nodo del dramma consiste in questo: che, allorquando uno di questi piccoli vuole staccarsi dal gruppo per vaghezza dell’ignoto o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace se lo ingoia e i suoi prossimi con lui’.
E a Sant’Agata, la vestale della religione della famiglia a cui aderisce per statuto, resta con Alessi, il fratello ‘buono’ che mette insieme i cocci e ricomincia da capo.
Il primo figlio ‘Ntoni, il bighellone, e l’ultima, Lia, ‘donna di finestra’, non reggono i limiti imposti dal villaggio, si staccano dallo scoglio , scompongono il cerchio e vanno.
E non posso fare a meno di immaginare quella Provvidenza manzoniana che aveva toccato l’animo di Lodovico e il duro cuore dell’Innominato (ma non quello di Gertrude e di Don Rodrigo), diventare omonima della piccola barca da pesca dei Malavoglia che cola a picco con Bastianazzo e i barili di lupini. D’accordo Verga è laico, ma il progresso di per sé non è una ferita immedicabile.
A chi avesse voglia di rileggere il romanzo suggerisco l’edizione curata da Ferruccio Cecco. Non solo ricca, esaustiva.
Immagine di copertina di Luca Bravo