Michele Mariotti dirige l’“opera brutta” di Verdi con vigore e sapienza musicale. Più superficiale la regia di David McVicar che riprende la fonte originaria di Schiller
Fino al 7 luglio è in scena alla Scala una nuova produzione dei Masnadieri, “opera brutta” di Verdi secondo il giudizio severo ma ingiusto di Massimo Mila, oggi superato da un nutrito gruppo di simpatici folli che ad Aida e Don Carlo preferiscono Alzira e Il corsaro (per il fact checking si spulci pure tra i sondaggi social nei gruppi di melomani). Del resto le recenti inaugurazioni scaligere, se non hanno trasformato Giovanna d’Arco o Attila in capolavori, hanno fatto capire anche ai più scettici che un’opera di Verdi, “maggiore” o “minore” che sia, regge qualunque appuntamento, Sant’Ambrogio compreso. Quanto ai Masnadieri”, mancavano a Milano dal 1978, anno dell’unico allestimento novecentesco fatto alla Scala: marchio Pizzi (regia, scene e costumi) e direzione di Riccardo Chailly allora under venticinque.
Per questa edizione è stato chiamato a dirigere un altro specialista verdiano, sensibile anche al Verdi più bistrattato. Si tratta di Michele Mariotti che, saggiamente, si limita negli eccessi e nella foga e sceglie di far respirare l’orchestra, ammorbidendone il suono nei punti giusti e curando attentamente il ritmo teatrale di quest’opera “di galera”. Senza però cadere nel tranello opposto di trovarsi a camuffare i difetti della partitura (o presunti tali), le convenzionalità e i passaggi a prima vista grossolani. Insomma Mariotti non si inventa raffinatezze che non esistono, ma prende sul serio tutto quello che l’opera gli propone. E la strategia funziona a meraviglia perché, quando poi arrivano i momenti davvero preziosi (e ne arrivano parecchi), il direttore non fatica a renderli indimenticabili: dal preludio col canto desolato e desolante del violoncello fino al tragico spinto del terzetto finale; anche se poi è proprio nei cori e nelle cabalette più brutali che Mariotti impressiona per il passo che mantiene: vigoroso ma, manco a dirlo, sapientemente musicale; così nulla viene buttato via con la scusa dell’irruenza. A proposito del giovane Verdi, Julian Budden parla spesso di una “enfasi priva di profondità”, che però non va scambiata per superficialità: sarebbe un fraintendimento, e Mariotti non solo lo ha capito ma lo ha interiorizzato, nel gesto e nelle intenzioni, come si avverte ogni volta che cerca (e trova) il giusto colore drammatico.
È parsa invece più superficiale la messinscena di David McVicar, che riprende la fonte dell’opera – niente meno che Die Räuber di Schiller, sublime punto medio tra la metafisica di Shakespeare e le arrabbiate esplosioni di Osborne – e la usa come miccia drammatica per seguire la strampalata, incoerente ma persuasiva melodrammatizzazione che ne fanno Verdi e il librettista Andrea Maffei. Per farla breve, McVicar, come tanti registi prima di lui, ricorre alle alte (in questo caso altissime) fonti letterarie per togliersi dall’imbarazzo di risolvere tutte le marcette e cabalette su cui dovrebbe lavorare. Vuoi mettere con lo Sturm und Drang?
Così la scena unica in cui viene ambientata l’opera è il convitto militare frequentato dal giovane Schiller, la Karlsschule di Stoccarda: un continuo sorvegliare e punire a cui il poeta, un mimo sempre in scena, cerca di sfuggire con il potere della fantasia, mettendo per iscritto tra un sopruso e l’altro le vicende del suo protagonista (alter-ego?) Karl von Moor, ribelle alle ipocrisie e violenze del diabolico fratello Franz. A dire il vero Schiller fa un passo in più con il suo Robin Hood boemo, e lo trasforma nel prototipo del “genio” romantico, che si oppone alle costrizioni sociali e alle logiche dell’intelletto e sceglie le vie dell’istinto, degli impulsi del cuore e della libertà irrazionale.
Peccato che il problema dello spettacolo stia proprio nella sua intelligibilità. Ma anche dando per buona l’idea, non si può dire che aggiunga granché all’interpretazione dell’opera: non basta uno Schiller in scena, continuamente ribadito e sottolineato, per trasmettere al pubblico più Sturm und Drang di quanto non ce ne sia in partitura – e anche questo sarebbe tutto da dimostrare. Quanto a regia vera e propria, il livello è indiscutibilmente alto: dai movimenti dei mimi-briganti con maschere inquietanti, alla progressiva distruzione della scena negli ultimi due atti che rimanda a uno stato d’animo sempre più lacerato del poeta. Funziona persino la scena cameratesca con doccia e nudo (quasi) integrale durante “Le rube, gli stupri, gl’incendi, le morti”. Insomma occasione mancata per il regista giusto al momento giusto.
Venendo al cast, trionfo meritato per Lisette Oropesa, voce fresca e limpida, che debutta alla Scala nella parte tutta cabalette e agilità che fu di Jenny Lind. E se nelle prime due arie i virtuosismi convincono più dei cantabili, già a partire dal duetto col baritono del secondo atto i due piani si riallineano e la Oropesa riesce a fare di Amalia un personaggio tutt’altro che inesistente, a dispetto di quanto sostengono critici e musicologi più e meno illustri. Prova straordinaria di Fabio Sartori come Carlo, mai così a fuoco grazie a una sua personale regia vocale di sfumature e mezze voci, con cui rende la sua parte più riflessiva e “amletica” di quanto riesca a fare la regia vera e propria. Più in difficoltà Massimo Cavalletti nella parte di Francesco, con parziale riscatto nella scena dell’incubo all’inizio del quarto atto. Infine prova autorevole di Michele Pertusi nella parte di Massimiliano che fu di Lablache. Buon lavoro dei comprimari: Francesco Pittari, Alessandro Spina e Matteo Desole.