È uscito e naturalmente è un evento. Il trentanovesimo album di Bob Dylan, “Rough and rowdy ways”, è il primo dal 2012 composto da brani originali. Un grande disco che non suona nuovo ma suona benissimo
Due mesi fa, in pieno lockdown, apro il computer una sera e trovo una notifica del Bob Dylan Official Channel (ebbene sì, come molti “dylaniati” sono iscritto). Un breve messaggio del maestro in persona che dice a tutti noi: «Grazie a chi mi segue e mi apprezza, sono grato per il sostegno e la fedeltà che mi avete dimostrato nel corso degli anni. Questa è una canzone inedita che abbiamo registrato qualche tempo fa e che potreste trovare interessante. State al sicuro, state attenti e che Dio sia con voi». Apro il video e rimango in trance per quasi diciassette minuti (16.55 minuti, per l’esattezza) ad ascoltare la canzone più lunga dei suoi sessant’anni di carriera. Highlands, nel bellissimo Time out of mind del 1997, durava appena un po’ di meno, 16 minuti e 31 secondi, ed era assai meno scioccante. E Sad-eyed lady of the Lowlands dal doppio epocale Blonde on blonde del 1966, che quand’ero ragazzino mi colpì per la sua lunghezza inusitata, durava appena 11 minuti e 19 secondi. Per una curiosa legge di compensazione, questo brano chilometrico e ipnotico, questo recitar cantando per pianoforte e batteria increspato verso la fine da violini neanche tanto dolci, è diventato a sorpresa l’unico numero uno nelle classifiche dei singoli di tutta la sua carriera.
Il brano si intitola Murder most foul (il più odioso dei crimini, quello che il fantasma del padre di Amleto, assassinato, ricorda al figlio), e nel nuovo disco Rough and rowdy ways, “Modi ruvidi e chiassosi”, occupa da solo l’intero secondo cd. È il suo trentanovesimo album, questo che ho finito di ascoltare, il primo composto da brani originali dopo Tempest del 2012 (in mezzo ci sono stati tre album in cui Dylan recuperava il songbook classico americano, il premio Nobel del 2016 e numerose raccolte antologiche inedite dai suoi sterminati archivi) e gioverà ricordare che My rough and rowdy ways era un brano inciso nel 1931 da Jimmie Rodgers, il “frenatore canterino” morto giovane di tisi, un cantore popolare di solitudini e abbandoni da sempre caro a Dylan: sulle citazioni e le convocazioni di cui trabocca questo nuovo lavoro ritornerò.
Murder most foul parla del più odioso dei crimini americani, assassinare le persone in piazza o in strada, davanti a tutti, simboli del potere o neri le cui vite non contano per il suprematismo bianco che rialza la testa. Oggi George Floyd (qualche giorno fa Dylan ha dichiarato al New York Times: «Mi ha nauseato senza fine vedere George torturato a morte in quel modo. È stato oltre l’orrore. Speriamo che la giustizia arrivi presto per la famiglia Floyd e per la nazione»). E ieri, a Dallas, John Fitzgerald Kennedy.
Era un giorno buio a Dallas, novembre ’63
Un giorno che continuerà a vivere nell’infamia
Il presidente Kennedy volava alto
Un buon giorno per vivere e un buon giorno per morire
Per essere portato al macello come un agnello sacrificale
Ha detto: «Aspettate un attimo, ragazzi, sapete chi sono?»
«Certo che lo sappiamo, sappiamo chi sei»
Poi gli hanno fatto esplodere la testa mentre era ancora in macchina
Abbattuto come un cane nella luce piena del giorno
Era questione di tempismo e il tempismo era perfetto
Hai debiti da pagare, siamo venuti a riscuotere
Ti uccideremo con odio, senza nessun rispetto
Ti prenderemo in giro, ti terrorizzeremo, te lo sbatteremo in faccia
Abbiamo già qualcuno da mettere al tuo posto
Il giorno in cui fecero saltare le cervella al re
Guardavano in migliaia, nessuno ha visto niente…
La cronaca di quel giorno in cui è “cominciato il regno dell’anticristo”, la corsa convulsa all’ospedale, il sarto ucraino Zapruder che riprende l’assassinio con una cinepresa amatoriale, il giuramento di Johnson, gli intorbidamenti e i depistaggi scorrono come un lungo flusso di coscienza (sto leggendo in questi giorni l’Ulisse di Joyce nella splendida traduzione di Mario Biondi, e paragonare la “scrittura in trance” che Dylan si attribuisce con la prosa del grande irlandese non mi sembra né improprio né azzardato, salvo i diversi esiti: Dylan è l’ultimo dei grandi modernisti del ‘900) che, a un certo punto, incorpora la musica di quegli anni (i Beatles, Woodstock, Altamont) e quella degli anni ’50, i classici e il blues, il jazz e Marilyn, i gangster e gli eroi. Chiedendo a un vecchio, mitico dj, il Lupo Solitario di American graffiti, di farla suonare e di concludere con Blood stained banner, la bandiera macchiata di sangue, e con Murder most foul.
È un procedere spiazzante ma solo all’apparenza incongruo: come se tutta la musica, tutto l’immaginario d’America, anche il più solare e innocente (chessò, Memphis in June di Hoagy Carmichael e Blue skies di Irving Berlin, citati fra i tanti) fossero anch’essi frutto della storia, immersi nel fiume della storia e macchiati di quel sangue.
Lo spiegherà in un altro dei dieci brani dell’album, il bellissimo Mother of Muses, nominando i generali americani e inglesi che hanno combattuto i tedeschi nella seconda guerra mondiale – Sherman, Montgomery, Scott e Patton ma anche, a sorpresa, il sovietico Zukhov eroe di Stalingrado – per ricordare che sono quelle battaglie, quel sangue, che “hanno spianato la strada al canto di Elvis” e che “hanno scolpito il cammino di Martin Luther King”: il rock e i diritti civili, il profano e il sacro, ugualmente alimentati dalla battaglia per la libertà e la democrazia.
Altrove (I contain multitudes), Dylan si dichiara come Indiana Jones ma anche come Anna Frank, perché “dormo con la morte e la vita nello stesso letto”. Il frivolo, l’avventura, reso possibile dalla memoria dell’orrore e del Male. Ogni attimo di gioia reso possibile dal dolore. Chi richiama, chi cita con la sua voce di ghiaia che si piega alla carezza e a tratti scatta come un colpo di frusta, questo signore sulla soglia degli ottant’anni che ne ha viste e ne ha scritte tante? L’uomo che ha «un cuore rivelatore come mr. Poe», che intona «i canti dell’esperienza come William Blake», che ha scheletri nell’armadio di persone che conosciamo, che dipinge paesaggi e nudi, che confessa di essere «come quei ragazzacci inglesi, i Rolling Stones», che ascolta le Sonate di Beethoven e i Preludi di Chopin, quando rivela «sono un uomo di contraddizioni, di molteplici umori, contengo moltitudini», chi evoca, chi convoca? Mi ricorda qualcosa, ci penso per un po’, poi all’improvviso mi torna in mente: «Do I contradict myself?/ Very well then I contradict myself,/ (I am large, I contain multitudes)». Walt Whitman, il grande cantore dell’individualismo e della solidarietà, della democrazia americana. Song of myself.
Dylan che come Frankenstein cerca di costruire, da tanti frammenti, una donna (o un altro sé) ideale (My own version of you) in realtà si confessa ossessionato dalla storia, dal passato, dalla nostalgia. E convoca i suoi amori letterari (Shakespeare, la Bibbia ma con «ebrei, cattolici e musulmani che pregano» assieme, Goodbye Jimmy Reed), gli idoli della gioventù («Sono nato dalla parte sbagliata della ferrovia, come Ginsberg, Corso e Kerouac», Key West), i fantasmi della storia (i troiani sconfitti e fatti schiavi «ben prima che l’America ci fosse», Giulio Cesare che si chiede cosa fare), gli amori con cui riconciliarsi («Ho viaggiato dalla montagna al mare/ Spero che gli dei ci vadano piano con me/ Sapevo che avresti detto di sì, lo dico anch’io/ Ho deciso di donarmi a te», I’ve made up my mind to give myself to you). Per confessare: «Voglio riportare in vita qualcuno, fare tornare indietro gli anni/ Farlo con le risate e con le lacrime».
Anche l’orgoglio, l’alterità (e la solitudine, la desolazione) con cui sembra scolpirsi nella pietra in False prophet è in realtà una strana, scontrosa forma di umiltà, la consapevolezza di essere l’ultimo di una stirpe di vagabondi, di anime erranti, di cantori senza nome, di essere alla fine di una lunga strada:
Un altro giorno che non finisce
Un’altra nave che parte
Un altro giorno di rabbia, amarezza e dubbio
So com’è successo
L’ho visto incominciare
Ho aperto il cuore al mondo e il mondo è entrato
Hello Mary Lou
Hello Miss Pearl
Non sono un falso profeta
So soltanto quel che so
Vado dove soltanto i solitari possono andare
Sono il primo fra uguali
Secondo a nessuno
L’ultimo dei migliori
Puoi seppellire il resto
Non sono un falso profeta
Non sono lo sposo di nessuna
Non ricordo più quando sono nato
E ho scordato quando sono morto
Così, fra una citazione (Hello Mary Lou era una canzone di Ricky Nelson) e un omaggio cifrato (Miss Pearl è la grande e infelice Janis Joplin), questo grande disco che non suona nuovo ma suona benissimo, spazzole e chitarre accennate in morbide song jazzate, gemme folk di squisita fattura melodica con mandolini elettrici (i compagni di viaggio sono quelli degli ultimi dischi: Charlie Sexton e Bob Britt alla chitarra, Tony Garnier al basso, Matt Chamberlain alla batteria e Donnie Herron alla steel guitar, al violino e alla fisarmonica; ospiti la cantautrice Fiona Apple, Alan Pasqua al piano e Benmont Tench già con il grande Tom Petty all’organo Hammond), si impenna in un blues, Crossing the Rubicon, per fare del dilemma di Cesare la metafora dell’ultimo viaggio. Inutile mitigare l’impatto e fare gli scaramantici, basterà dire che la morte è pensiero ricorrente in Dylan da molti anni, almeno da Knockin’ on heaven’s door. E che forse pensarci la tiene a bada, e che la metafora e il mischiare le carte sono evidenti, con questo Rubicone rosso come il mare che si aprì per fare passare gli ebrei in fuga dall’Egitto.
Bene, il Rubicone è un fiume rosso
Che scorre dolcemente
Più rosso delle tue labbra di corallo
E il sangue che sgorga dalla rosa
Tre miglia a nord del Purgatorio
Un passo dal Grande Aldilà
Ho pregato la croce, ho baciato le ragazze
E ho attraversato il Rubicone
Cosa sono questi giorni bui che vedo?
In questo mondo piegato
Non posso riscattare il tempo
Il tempo così oziosamente speso
Quanto può durare ancora?
Quanto può durare?