Perché la propria vita non sia soltanto una (più o meno) lunga serie di eventi: “I paesaggi perduti” di Joyce Carol Oates
Una volta ho visto un film nel quale un uomo diceva a un altro: “Un tempo, quando qualcuno aveva un segreto da nascondere, andava in un bosco, faceva un buco in un tronco e sussurrava lì il suo segreto… poi richiudeva il buco con del fango, così il segreto sarebbe rimasto sigillato per l’eternità”. Spesso mi sono domandata cosa siano i segreti e se sia un bene sigillarli per l’eternità, ma una risposta definitiva non l’ho ancora trovata. Quello, però, che mi pare vero è che troppo di frequente li confondiamo con la nostra intima essenza e che le rivelazioni (o le confidenze) si riducono quotidianamente a un anonimo e scialbo elenco di ciò che semplicemente ci è accaduto o ci sta accadendo. Ma dire (o non dire – o anche banalmente mentire) il nome del nostro amante o il numero di volte in cui abbiamo divorziato è ovviamente e profondamente diverso dal raccontare il come e soprattutto il perché un evento qualsiasi sia accaduto. Ma perché sto dicendo questo? Perché mai prima di leggere I paesaggi perduti di Joyce Carol Oates ero riuscita a cogliere appieno questa differenza, a percepirla così nitidamente persino nelle pieghe più nascoste o nelle sfumature più ambigue di ogni singolo avvenimento. L’autrice, infatti, pare conoscerla benissimo, questa dissomiglianza, e nelle trecento e oltre pagine nelle quali disamina la propria vita riesce a raccontarci tutto, pur senza raccontarci nulla. Senza soffermarsi su nessun particolare troppo concreto, intendo dire, raccontando soltanto quello che lei considera importante, gli episodi, cioè, che in qualche modo l’hanno resa quello che è poi diventata. In particolare, si sofferma su ciò che le ha permesso di sviluppare il suo senso critico, la sua capacità d’osservazione, la sua curiosità per le vite degli altri. Il suo desiderio stesso di scrivere.
È una specie di diario, questo, che raccoglie uno straordinario insieme di impressioni, ricordi, fatti quotidiani, lettere, aneddoti. Nessuno di loro è scontato, nessuno è banale. Non sembra ci sia spazio per i cliché, nella vita di Oates. Il padre l’accompagna su in cielo, pilotando aerei rudimentali, la invita agli incontri di boxe. E lei snocciola citazioni e commenti raffinati, irriverenti, originali. Ogni tanto – educatamente – ci avvisa della sua ritrosia che le impone di tacere una certa situazione, della sua timidezza che la obbliga a sorvolare su un tale evento. Della sua decisione – cioè – di non voler fare semplicemente biografia. E il libro ne esce rafforzato. Non so come si possa narrare in modo così sincero. È tutto talmente realistico da sembrare vero.
In copertina c’è lei, in una posa innocente che tradisce tutto il suo imbarazzo. È impossibile non soffermarsi a guardare quelle ginocchia così infantili da sembrare sbucciate, così vicine una all’altra, così esili; e le mani giunte perché non si sa dove metterle; e quell’espressione spaesata, di vergognosa circostanza. Vestito rosso a pois, calzette bianche poco sopra la caviglia, sorriso impacciato. Dietro, la campagna americana che cerca di lasciarsi alle spalle la Grande Depressione. Immaginiamoci American Gothic di Grant Wood o qualcosa del genere. Immaginiamoci – per esempio – Edward Hopper e le sue solitudini. Poi chiudiamo gli occhi e proviamo a vedere infinite strade di provincia, pollai recintati alla bell’e meglio, fienili abbandonati. E campagna, campagna, e ancora campagna. E poi – finalmente – tentiamo di scorgere lei, Joyce, mentre corre con gli altri bambini, intenta in qualche gioco infantile; o mentre aspetta lungo il ciglio della strada un passaggio in automobile per andare a scuola; oppure – e infine – mentre carica di valigie e aspettative, diretta verso il miraggio dell’università, sta per abbandonare quei suoi luoghi d’infanzia. Mentre sta – cioè – per voltare loro per sempre le spalle.
Come anticipa il titolo stesso, il libro sembra parlarci principalmente di luoghi. Dimenticati, amati, mal interpretati, sfuggiti. Mai come nelle pagine dedicate alla casa della sua infanzia la prosa dell’autore è così vivida, così evocativa. Ci sembra quasi di averli davanti agli occhi, quegli scorci d’America. Ma poi il racconto si anima anche di vita, persone, circostanze, aspettative, tragedie. Non sembra essere mancato proprio nulla, a Joyce Carol Oates: genitori amorevoli ma sfaccettati, suicidi, tradimenti, lutti, successi e insuccessi prima scolastici e poi professionali, persino reati, eppure la sua penna è così precisa, così intransigente e allo stesso tempo così generosa, da non permetterci nemmeno per un attimo di dubitare della sua lealtà nel raccontare lo svolgimento dei fatti. Questa sua sincerità è il cuore del libro, questa capacità di trasferire ricordi e sensazioni autentiche al lettore, senza eccessivi lirismi o scorciatoie emotive. Eccola qui, la mia vita, sembra volerci dire. O meglio, ecco a voi la mia vita per come è apparsa a me. E come spesso accade, la parte più evocativa è quella che riguarda la sua infanzia, gli anni duri e senza fronzoli della campagna, tra aie polverose e galline, arrampicate sugli alberi per raccogliere la frutta da vendere al mercato e studio matto e disperatissimo. Quegli anni pieni anche di delusioni, incomprensioni, povertà e storie di vita che al lettore moderno non possono che apparire talmente lontane da sembrare inverosimili: genitori che non partecipano al matrimonio dei figli perché occorre l’aereo per arrivarci; malattie mentali scambiate per disagi esistenziali o relazionali; senso del pudore talmente sviluppato da non permettere mai domande di carattere troppo personale.
Ricordate Guccini quando canta – in Piccola città – questa strofa: “Così diversa sei adesso, io sono sempre lo stesso, sempre diverso”? Ecco, nel leggere I paesaggi perduti mi è tornata spesso in mente. Ho ritrovato quella stessa impressione, quella stessa agrodolce sensazione di spaesamento che ci assale quando ci troviamo davanti a un luogo al quale ci sentiamo particolarmente legati per via di un passato comune, ma dal quale siamo stati – e chissà mai perché – dolorosamente strappati via. E in quei momenti nei quali osserviamo in silenzio quei mattoni, quelle montagne, quelle vie, quei boschi, quei paesaggi che amavamo così tanto, che conoscevamo, cioè, talmente bene da poterli disegnare a occhi chiusi, ma che ora – ahimè – appartengo a occhi altrui, in quei momenti, dicevo, guardiamo quel muro, quel bosco, quella strada e intanto – dentro di noi – ci domandiamo: ma chi dei due è più cambiato? Sono io, ad essere diverso, o sei tu? Lo sapremo mai? Un ricordo è qualcosa che abbiamo o qualcosa che abbiamo perduto?