Una mostra in Palazzo Reale, per raccontare il lavoro di Margaret Bourke-White, una delle più importanti fotografe del Novecento
«La prima, insomma, quasi in tutto». Un primato nella propria professione, quello di Margaret Bourke-White (1904-1971), che è descritto così come onnipervasivo da Alessandra Mauro, curatrice della mostra dedicata alla fotografa statunitense che si svolgerà in questi mesi a Palazzo Reale. Un’esposizione organizzata, appunto, per porre l’accento sul ruolo di pioniera che Bourke-White ebbe nel secolo scorso, prima ancora che le lotte della seconda ondata femminista, fra gli anni Sessanta e Ottanta, guadagnassero un po’ di terreno sul campo dell’inserimento e del riconoscimento delle donne nel mondo del lavoro.
La mostra dedicata alla fotografa americana offre un’opportunità per confrontarsi con le realtà storiche contemporanee filtrate dall’obiettivo di una donna che in vita sempre si impegnò per la propria professione, e mai si sottrasse al suo compito di testimonianza in primis, di critica e di denuncia quando ce ne fu il bisogno, e anche di auto testimonianza (Margaret documentò con delle fotografie di sé l’incedere del morbo di Parkinson, che la afflisse dal 1952 fino alla morte). L’operato della Bourke-White è ripartito nell’esposizione a Palazzo Reale cronologicamente in undici sezioni, che raccolgono una selezione di immagini provenienti dall’archivio Life di New York e risalenti, grossomodo, al periodo tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta.
Dopo aver studiato fotografia in concomitanza alla sua frequentazione universitaria terminata nel 1927, Margaret apre nel 1928 il suo studio a Cleveland, e si dedica in principio agli scatti che immortalano la realtà industriale in espansione negli Stati Uniti di quegli anni; si concentra, oltre che a riprendere lavoratori e operai, anche su peculiari immagini di lamine, cavi d’alluminio e rocchetti. La Bourke-White inizia quindi l’attività ritraendo le sfaccettature di un secolo, il Novecento, che accoglie e adempie del tutto l’eredità lasciata dalla rivoluzione industriale dell’Ottocento. Una chiave di lettura con la quale è possibile accostarsi alla mostra a Palazzo Reale sta proprio nello scorgere come Bourke-White si sia resa conto dell’importanza di soggetti e avvenimenti storici di grande interesse al tempo, intuendone, trascendendo la contemporaneità, l’importanza storica per l’intero XX secolo.
Si è visto come la Bourke-White abbia ritratto, assai per tempo e con tanta attenzione la realtà industriale, rendendosi conto che questa era divenuta perno della società capitalistica contemporanea, ma partendo da qui fece ben altro: i suoi più famosi scatti successivi sono legati, in particolare, alla rivista Life, creata nel 1936. Con essa Margaret collaborò assiduamente tramite i suoi “photo essays”, ai quali sono dedicate molte delle sezioni della mostra.
Ed è con questi reportage che la Bourke-White ha saputo meglio esprimere le sue doti di fotografa e fotogiornalista, quel suo ‘primato’ che la mostra di Palazzo Reale si propone di esporre. Margaret fu infatti la prima, come ricorda Alessandra Mauro, «a documentare la Russia del piano quinquennale e l’unica a ottenere una sessione di posa da Stalin. La prima per cui viene disegnata la divisa di corrispondente di guerra. E poi, la prima a riprendere l’orrore del campo di concentramento di Buchenwald, a testimoniare l’India nel momento di separazione con il Pakistan e l’unica a realizzare un intenso ritratto del Mahatma Gandhi a poche ore dalla sua morte. La prima a scendere sottoterra con i minatori in Sud Africa, a fotografare la segregazione razziale degli USA a colori».
Ci pare che questa monografia illustrativa sul ‘primato’ della Bourke-White sia riuscita, in quanto si concentra, con una selezione di scatti non cospicua ma comunque di impatto, a presentare delle fotografie che siano monumento del passato che rimane ancor vivo nell’oggi. Mi spiego: l’impressione suscitata dagli scatti di Bourke-White in mostra a Palazzo Reale non è quella di un esercizio tecnico fine a sé e lontano nel tempo, in quanto ancorato soltanto a qualcosa che non c’è più, ma quella di una ripresa fotografica che ha catturato dei ricordi di un passato che ha costruito l’oggi. C’è nelle foto dedicate alla campagna statunitense in Italia durante la Seconda Guerra Mondiale la concitata agitazione dei militari che combattevano un conflitto di stampo epocale; c’è nella foto dei prigionieri di Buchenwald il senso di prigionia e di vessazione di un popolo intero; c’è nella foto di una Norimberga devastata dai bombardamenti il segno della distruzione che la guerra aveva portato all’Europa; e gli esempi potrebbero continuare ben oltre.
Margaret Bourke-White pare aver dimostrato con la sua strenua attività non soltanto il suo primato di donna fotografa, ma anche il primato della fotografia, mezzo necessario per documentare un cambiamento delle circostanze storiche che non è mai stato radicale come nel secolo scorso. La fotografia diviene sì medium per il ricordo, ma anche strumento di denuncia, di critica e di polemica di circostanze storiche che, seppur passate, si rivelano ben più vicine ai nostri tempi di quanto non ci si aspetti, come alcuni suoi reportage fanno notare. Su tutti quelli in rassegna, il servizio che più mostra qualche connessione con gli eventi di protesta attuali negli Stati Uniti è quello del 1956, dedicato al fenomeno della segregazione razziale in una città della South Carolina, Greenville, ed intitolato Voices of the White South. Qui è manifesto come, nonostante sia passato mezzo secolo dalla massima attenzione mediatica per il movimento per i diritti civili afroamericani, vi sia una continuità storica fra le proteste passate e quelle del giorno d’oggi.
Dopo la visita all’esposizione, quindi, verrebbe da chiedersi se, in fondo, Margaret Bourke-White non abbia ritratto appunto l’essenza dei principali avvenimenti che si svolsero nel trentennio della sua attività: la Grande depressione americana degli anni Trenta, la Seconda Guerra Mondiale, i mutamenti sociopolitici dell’India di Gandhi e del Sudafrica dell’apartheid e la realtà delle disparità sociali negli Stati Uniti. Certo è che il primato della Bourke-White, come testimoniato da lei stessa in una intervista fruibile in forma audiovisiva posta nell’ultima sezione della mostra, è frutto di una incredibile caparbietà che, all’epoca, poco si confaceva a un’indole femminile per certi versi ritenuta ancora stereotipata e incapace di un pieno affrancamento dall’individuo maschile. Fa sorridere senza dubbio il racconto delle prove fatte da Margaret a un poligono di tiro, prima dell’esperienza come corrispondente di guerra, dove la fotografa, a causa della sua abitudine a inquadrare i soggetti con la macchina fotografica, dimostrò di possedere una ottima mira.
Figura quindi senza dubbio sui generis quella di Bourke-White, che mai si arrese alle limitazioni che venivano annesse al sesso femminile in quegli anni, e che seppe battersi con caparbietà anche contro la malattia che, nonostante la sua strenua resistenza, finì per avere la meglio su di lei. E proprio l’ultima sezione della mostra, incentrata sugli scatti dedicati ai segni del morbo di Parkinson sulla persona di Margaret, presenta le immagini di una donna che, sebbene sofferente, si dedica ancora con vigore a svariate occupazioni. Queste immagini documentano una grande voglia di vivere e un grande fervore che permisero alla Bourke-White di conseguire tutti i suoi traguardi, che lei seppe raggiungere sì da primadonna al suo tempo ma forse soprattutto in quanto donna, con una forza interiore che bastava per oscurare lo stereotipo delle differenze di genere.
Prima, donna. Margaret Bourke-White, a cura di Alessandra Maura, Milano, Palazzo Reale, fino al 14 febbraio 2021