Fergus Fleming ha ereditato dallo zio Ian, il creatore di James Bond, il gusto per l’avventura e i viaggi e uno stile asciutto, ironico, un insieme di obiettività e paradosso, tipici di certa prosa tipicamente british, che lo rendono irresistibile. E da qui nasce “I ragazzi di Barrow”, libro-racconto sulle esplorazioni della prima metà dell’Ottocento
Di cronache, diari, saggi sulle esplorazioni nella prima metà dell’Ottocento ce n’è una quantità sterminata; la tesi di Fergus Fleming in I ragazzi di Barrow è quella di riunirli tutti in un fil rouge che è la mente organizzatrice e amante dell’ignoto di John Barrow, considerato ai tempi il padre dell’esplorazione, poi relegato al ruolo di burocrate e dimenticato.
Fergus Fleming ha ereditato dallo zio Ian, il creatore di James Bond, il gusto per l’avventura e i viaggi e uno stile asciutto, ironico, un insieme di obiettività e paradosso, tipici di certa prosa tipicamente british, che lo rendono irresistibile. Altro bell’intreccio in I Ragazzi di Barrow è quello tra grande Storia, ineccepibile documentazione e pettegolezzi, piccoli eventi quotidiani o incidenti che portano a cambiamenti epocali.
La nascita delle grandi esplorazioni britanniche intorno ai primi decenni dell’ottocento ha origine dalla crisi della Marina che aveva avuto una mirabolante espansione durante le guerre napoleoniche (da centotrentamila a ventitremila effettivi) e stava subendo un drastico ridimensionamento.
Non si poteva mandare a casa di punto in bianco tutti quei marinai, ma non avevano niente da fare. Il governo optò per dimezzarne la paga, una prospettiva poco allegra perché bastava a mala pena per sopravvivere. Ci sarebbe voluta una bella guerra, ma al momento non ce n’erano in vista.
La soluzione ce l’aveva John Barrow, pronta su un piatto d’argento, meglio di peltro, perché di finanziamenti riuscì a strapparne pochini.
‘Era convinto che l’esplorazione avrebbe arricchito la conoscenza scientifica, fatto da volano per il commercio, e impedito che altri paesi si facessero strada in un mondo sul quale l’Inghilterra regnava incontrastata, ledendo in modo irreparabile l’orgoglio nazionale’.
John Barrow, secondo Segretario dell’Ammiragliato britannico dal 1804 fino al 1841, persegue il suo obiettivo indipendentemente da chi fosse al governo, insomma Whigs o Tories per lui non faceva differenza e non intendeva assolutamente cedere il suo potere. Infatti sarebbe rimasto all’Ammiragliato fino a ottantun anni, diventando il primo, vero funzionario dell’Impero Britannico nel senso pieno del termine.
Amico e discepolo di Joseph Banks, il mitico fondatore della Royal Society, i due passavano le serate con l’Atlante squadernato davanti a fissare i vuoti, le terre inesplorate nei continenti, a immaginare e a progettare come raggiungerle. Cosa c’era al Polo Nord? Esisteva l’Antartide? E un Passaggio a nordovest? Dov’era Timbuctù? Cosa si nascondeva nel cuore dell’Africa?
Barrow non era un uomo fantasioso. Durante la visita al leggendario palazzo d’estate di Pechino una sola cosa l’aveva colpito: l’uso dei mattoni nel muro di cinta del giardino. Però era un sognatore. E il suo sogno era di riempirli quei buchi.
Così durante il suo mandato inviò decine di spedizioni verso ogni lacuna delle mappe che gli accendesse l’immaginazione, conservando sempre una mente fredda e analitica, che però non gli evitò clamorosi fallimenti.
Il suo primo obiettivo per cartografare l’ignoto fu la sfida più popolare, seducente e romantica di tutte: la ricerca del Niger, che si concluse in un disastro. Riportò solo qualche minerale, qualche insetto, qualche piantina, ma il fiume aveva troppe rapide e gli indigeni avevano un’indole pigra e crudele.
Barrow non si leccò le ferite, ma mise subito su un’altra spedizione, questa volta l’obiettivo è il Passaggio a nordovest: da secoli era l’Eldorado dei navigatori, l’unico posto di cui si sapesse qualcosa era un grande magazzino di pellicce a cielo aperto, la Baia di Hudson. Poi solo ghiaccio e mistero.
Altrettanto misteriosi i criteri con cui Barrow seleziona i suoi comandanti. Diversissimi tra loro, “ma avevano tre cose in comune: nessuno si era mai neanche avvicinato all’Artide; erano spinti solo ed esclusivamente dal bisogno di lavorare; in segreto, speravano che l’incarico avrebbe comportato automaticamente una promozione”.
Le esplorazioni acquistano caratteristiche diverse a seconda del carattere dei comandanti. William Perry è un pianificatore. Secondo lui, i nemici di una spedizione al Polo sarebbero stati lo scorbuto e la noia. È il primo a stivare litri di succo di limone e adotta per primo un’altra innovazione: il cibo in scatola. Il suo equipaggio sarà l’unico a non ammalarsi e curerà anche gli eschimesi, che lo ameranno moltissimo.
Per ammazzare la noia durante l’inverno glaciale, organizza concerti, rappresentazioni teatrali, gare di cricket e di pesca. Mentre Perry è tutto preso dalla tecnica di costruzione degli igloo, l’altro comandante, Lyon, vuol approfondire la conoscenza degli eschimesi: si fa fare con un osso e un filo di fuliggine elaborati tatuaggi, assiste a danze delle donne ‘indecenti ed esplicite al massimo grado’.
Nello stesso 1819, c’è la storia dell’esplorazione dell’obeso, sfigatissimo Franklin, che doveva ricongiungersi via terra al mitico passaggio di nordovest, attraversando il Canada. Muoiono tutti, non scoprono un bel niente, Franklin si mangia fin gli stivali, e ha il coraggio di scriverci un libro con particolari raccapriccianti e che diventa il primo best seller dei diari di viaggio, trasformando Franklin in un eroe acclamatissimo.