Settant’anni e a sentire la sua musica non li dimostra, verrebbe da dire. Il nuovo album di Eric Clapton (dedicato alla zia) manifesta la volontà del leggendario chitarrista di esserci e di continuare a mettersi in gioco
“Slowhand” è tornato. O meglio, sembra non essersene mai andato. In questo senso, il titolo dell’ultimo album, I still do uscito lo scorso 20 maggio, assume i tratti di una dichiarazione confortante: “lo faccio ancora”. E il ritratto in copertina, proveniente dalla mano illustre di Sir Peter Blake, regala a Eric Clapton un’aria quasi perentoria.
La sensazione di familiarità ci accoglie dalle prime note del disco, accompagnata dall’impressione che lo strumento nelle mani del chitarrista traduca sempre emozioni sincere in musica. Questa impressione trova conferma nelle parole dello storico produttore Glyn Johns, sostegno fondamentale per la riuscita di quest’ultimo raffinato lavoro: «il modo di suonare di Eric scorre direttamente dal cuore alle dita. Non proviene dalla ragione. Con lui puoi registrare tre take dello stesso brano, e suoneranno completamente differenti tra loro. E questa non può che essere la risposta emotiva a quello che sta facendo».
Insomma, alla soglia dei settant’anni, con una carriera leggendaria alle spalle e con l’imperitura voglia di mettersi in gioco, l’artista britannico regala al suo pubblico uno sguardo ben lucido e cosciente di ciò che può trasmettere. In questo senso I still do è la chiara ammissione di esserci ancora, pregi e difetti. «Il titolo è un tributo a mia zia», afferma Clapton durante una chiacchierata con l’attore Paul Whitehouse, «quando la ringraziai per essersi presa cura di me, nonostante fossi un ragazzino intrattabile, lei mi disse “beh, mi piacevi ed è ancora così (I still do)”».
L’album è un mix bilanciato di inediti e di cover, queste ultime coerenti con lo storico gusto blues di Clapton. In apertura del disco colpisce il suono aspro di Alabama woman blues, cover di Leroy Carr, sul quale la mano lenta del chitarrista britannico gioca a inserire la citazione di Walkin’ Blues. Fa capolino l’immancabile Robert Johnson in Stones in my passway, cover che segna un’ideale continuità con l’album del 1999 Me and Mr. Johnson. Sorprende il doppio tributo al compianto J.J. Cale in Somebody’s knockin’ e nell’inedito Can’t let you do it, pezzo ritmato in cui Clapton si abbandona a una fusione di stili vicina al modus operandi dell’autore di Cocaine. Brani come I dreamed I saw St. Augustine, cover di Bob Dylan, e il traditional I’ll be alright segnano il recupero di un folk riflessivo e sognante. L’album si chiude sulla reinterpretazione del classico I’ll be seeing you (reso popolare da Billie Holiday) nel quale i fraseggi della chitarra ricordano l’altrettanto classico Nobody knows you when you’re down and out.
Resta in sospeso la questione sull’identità dell’Angelo Mysterioso che appare nel brano inedito I will be there: la congettura saporita, che serpeggiava tra i media fino a qualche mese fa, vedeva in George Harrison il principale candidato dietro lo pseudonimo, in una specie di “collaborazione postuma”. La voce è stata alimentata dal fatto che Harrison si sia effettivamente nascosto, nel 1969, dietro l’identità di “Angelo Mysterioso”, quando compose il pezzo The Badge per i Cream. Clapton si è affrettato a smentire la notizia non senza una punta di divertimento sull’equivoco.
Nell’uso ampio dello slide riecheggia il linguaggio dei bluesman del passato, tra cui Elmore James e Hop Wilson, ma il genere viene rinfrescato dal sound raffinato e dagli arrangiamenti delicati. Operazione ben riuscita nell’inedito Spiral, una sorta di blues dei giorni nostri, l’accezione forse più completa e intrigante del “farlo ancora” di Clapton.
Eric Clapton I Still Do (Bushbranch Records/Surfdog Records)