La Bibbia deborda nei versi di Bob Dylan, costeggia l’opera di Woody Guthrie, preme nella “teologia del Padre” di Bruce Springsteen, scrivono Massimo Granieri e Luca Miele, autori del “Vangelo secondo il rock”. Le Sacre Scritture, insomma, ri-suonano nella musica popolare americana e non solo. Fabrizio De André per esempio…
Sono un sacerdote passionista, indosso una tunica nera e una cintura di cuoio che testimonia la mia scelta di povertà. Sul petto porto un cuore sormontato da una croce di colore bianco che mi ricorda le sofferenze di Cristo e la purezza di vita cui sono chiamato. È lo stesso cuore tratteggiato sul collo di Scott Campbell, il tatuatore dei divi di Hollywood, il segno esposto nelle vetrine dei tattoo shop di mezzo mondo, riprodotto sulla pelle di tanti giovani ignari della sua origine. Per me è il distintivo di coloro che hanno avuto il dono di ascoltare la voce di Dio e di seguirlo da vicino, ripetendo a se stessi ogni giorno ciò che Patti Smith ha scritto sulla copertina interna dell’album Radio Ethiopia: “Fight the good fight”. Era il 1989 quando mi ritrovai tra le mani quel disco per la prima volta, avevo diciannove anni. Fu il primo episodio tangibile della rivelazione di Dio nella mia vita e della sua volontà di coinvolgermi nello sforzo di accompagnare l’essere umano in qualsiasi situazione si trovi o si vada a cacciare. Difficile a credersi, è stato il punk a incrociare i miei passi con quelli del Signore.
Scusate la lunga citazione, ma era indispensabile, perché il libro bello e insolito che mi ritrovo fra le mani, traboccante di competenza ed empatia oltre che di fede (Il Vangelo secondo il rock, pagg. 170, 14,90 euro: lo pubblica la storica e benemerita casa editrice valdese Claudiana) lo hanno scritto a capitoli alterni il sacerdote Massimo Granieri e il giornalista di Avvenire Luca Miele, che a ragione polemizza con “l’anticlericalismo primitivo” di buona parte dei giornalisti musicali italiani. E ha l’autorevole prefazione di Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica e uomo assai vicino a papa Francesco, ma anche acuto indagatore del mondo digitale (sua l’invenzione della “cyberteologia”) e di sensibilità artistiche, diciamo così, distanti dalla dogmatica cattolica, da Tondelli a Carver, da Kerouac a Tom Waits. Gli autori presenteranno il libro a Book Pride domenica 17 marzo.
In principio, dunque, era Patti Smith. Anche se, all’inizio del libro, c’è lo spirito guida di Leonard Cohen, ruminatore delle Scritture, a guidarci con un riv, un atto di accusa a Dio («La lite con Dio» ricorda il grande biblista Paolo De Benedetti «è una forma di intimità e di confidenza che quasi consuma la fede stessa in esperienza del “Tu” divino»), la meravigliosa e terribile You want it darker, scritta nel 2016 poco prima che il grande canadese morisse. Dopo avere cantato, la voce ridotta a un bisbiglio, “Hineni Hineni, sono pronto, mio Signore”, il Cohen che negli anni della pienezza aveva intonato Hallelujah, lancia una requisitoria veemente e sarcastica, intrisa di amarezza:
Se tu dai le carte
Fammi uscire dal gioco
Se sei il guaritore
Sono zoppo e a pezziSe tua è la gloria
Mia deve essere la vergogna
Tu vuoi che sia più buio.
Un incidente isolato? Ridiamo la parola agli autori: «La Bibbia deborda nei versi di Bob Dylan, costeggia l’opera di Woody Guthrie, preme nella “teologia del Padre” di Bruce Springsteen, sostiene la poetica di Johnny Cash, urla nella furia di Patti Smith, rabbrividisce nella sofferenza di Jeff Buckley. La Bibbia, insomma, ri-suona costantemente, tenacemente, intimamente nella canzone rock. Grido, invocazione, lode, contesa, affrontamento, giudizio, interrogazione, preghiera, bestemmia sono le forme che, di volta in volta, questo ri-suonare assume.
Che susciti intima adesione o netto rifiuto, che si distenda nella lotta o nell’abbraccio, nella fede o nella sua negazione, il rapporto con la Scrittura feconda il canzoniere di alcune delle voci più significative della cultura rock. Ed è proprio lo scarto, la distanza, l’abrasione, la ferita che si apre tra la parola biblica e il suo riecheggiare nella musica popolare, ciò che rende fertile, vertiginoso, a tratti provocatorio, questo ri-suonare».
È una realtà che riguarda soprattutto, anche se non solo, gli Stati Uniti – pensiamo, dalle nostre parti, alle riflessioni soltanto in apparenza a-religiose di John Lennon, al Personal Jesus dei Depeche Mode, alla “teologia negativa” di Nick Cave, al cristianesimo aconfessionale e “apocrifo” di Fabrizio De Andrè – dove la religione, esibita fin dalla carta costituzionale, intride la vita la politica e la cultura. Una religiosità ora gioiosa ed emancipatrice – da Walt Whitman alla Alcott di Piccole donne, dalla battaglia per l’abolizione della schiavitù a quella per i diritti civili – ora gotica e gravata dal peccato e dalla colpa – da Flannery O’Connor a William Faulkner. Lo ricorda Il dio d’America di Furio Colombo, un saggio illuminante apparso nel 1983 per Mondadori e ora ristampato da Claudiana proprio nella collana, “Nostro tempo”, che ospita il libro di cui stiamo parlando. Progresso e reazione, sogni di liberazione e deliri fanatici, in America passano per la porta stretta, se volete per il portale, della religione. Accade anche per il rock che queste pagine esaminano, e che non ha niente del più corrivo e deprimente “christian rock” (se volete leggerne, il libro giusto è l’acuto Americani di John Jeremiah Sullivan, Sellerio).
È una ricerca, una tensione ora lieta e positiva (Patti Smith, appunto), ora cupa e disperata (Tom Waits, Nick Cave, il Jeff Buckley che manipola l’Hallelujah di Cohen), ora sospesa tra il rifiuto e l’accostamento (Cat Power, Dave Matthews), apocalittica e salvifica al tempo stesso (Bob Dylan non a caso contestato per i tre album da born again christian, quasi che nessuno si fosse reso conto che, Dylan dixit, «La Bibbia attraversa tutta la vita degli Stati Uniti, che la gente lo sappia o no», quindi anche la sua, da ben prima della conversione), dolente (Janis Joplin), compassionevole e combattiva (Woody Guthrie), segnata dalla presenza di un Satana che era in realtà il diavolo bianco padrone e violatore di schiavi (Robert Johnson e i bluesmen), contraddittoria.
Come nel caso di Johnny Cash, piegato dagli anni e prossimo a uscire di scena, che negli estremi, scarni ed emozionanti American Recordings, sceglie per congedarsi Hurt dei – lontanissimi da lui – Nine Inch Nails:
Ho portato questa corona di spine
sulla mia sedia di mentitore
pieno di pensieri interrotti
(che) non posso riparare.
Scrivono gli autori: «Il genio di Cash è qui: nell’avere abitato la contraddizione americana. La contraddizione di un popolo che ha esaltato come nessuno aveva fatto prima la libertà praticando però la schiavitù. Che elegge l’individualismo a valore fondativo e si strugge nel segno della comunità perduta. Che insegue l’edonismo, ma si sente perseguitato dal peccato. Che ha canonizzato la ricerca della felicità come diritto costituzionale di ogni cittadino, ma ha messo in scena continuamente il suo smacco. Che “canta” l’eterna risorgenza del Sogno, e pratica la sua sconfitta».
Ecco, in Cash e in tutti gli altri c’è questa spiritualità brada e selvaggia, questa ricerca del sacro fuori dalle confessioni, dalle gerarchie e dalle certezze. Una ricerca a volte confusa ma che non ha niente del “bricolage del sacro” più modaiolo e fatuo. Leggete questo libro. Dopo, non ascolterete più i musicisti che avete amato con le stesse orecchie.
Si ascoltino anche:
Janis Joplin/ A woman left lonely, Tom Waits/ Jesus gonna be here, Woody Guthrie/ Jesus Christ, Robert Johnson/ Crossroads blues, Bob Dylan/ I believe in you, Dave Matthews/ Save me
Book Pride 2019: ogni desiderio