Come si è da bambini, si è da grandi. E’ la conferma che arriva dall’aver ripreso in mano, sulla scia di un nipote, il molto amato da piccola ‘Barone Rampante’. Ma a distanza di decenni si può scoprire, del tutto imprevedibilmente, che nella decisione di tornare a vivere in campagna c’è, un poco, lo zampino di Calvino
Penso di aver avuto undici o dodici anni quando, complice il film La famiglia Robinson (storia di una famiglia svizzera che dopo un naufragio si salva su un’isola deserta e si costruisce una fantastica casa su un grande albero) dichiarai a genitori e fratelli che, appena avessi potuto, me ne sarei andata di casa per vivere su un albero. Poco dopo papà e mamma mi regalarono Il barone rampante di Italo Calvino. Sapevano che con le dichiarazioni della loro figlia, abituata già a passare ore sugli alberi con i fratelli, a usare le liane per attraversare torrenti e a farle a pezzetti, le stesse liane, per fumarle di nascosto (ma questo non lo sapevano), non c’era da scherzare. <Ti piacerà molto> mi dissero. Non amavano, né mio padre né mia madre, le “femminucce”.
Cosimo, il protagonista del libro, primogenito come me, che dopo un litigio con il padre sale su un albero del giardino di famiglia per non scenderne mai più, diventò subito il mio eroe e il mio fidanzato. Come mi innervosii quando si innamora di Viola, la sua vicina di casa, la “sinforosa” come la chiamavano i “piccoli manigoldi” di strada, laceri e senza scarpe. Avevano ragione loro, Cosimo doveva scegliere una come me, non una biondina con il suo pony bianco. Per anni sognai di volare, sola o con chi mi faceva battere il cuore al momento, di albero in albero, di bosco in bosco, di montagna in montagna, sempre più lontano.
L’anno scorso mio nipote doveva leggere Il barone rampante per la scuola. Mi è venuta voglia di riprenderlo in mano. Al di là della mia passione per Cosimo e per la fuga e della gelosia per Viola ricordavo poco o nulla. Al punto che ero convinta che Cosimo fosse un mio contemporaneo della fine degli anni ’50 e non un bambino che decide di salire sugli alberi il 15 giugno del 1767. Ho ritrovato la stessa passione che mi aveva invasa allora e ho risentito in ogni fibra del mio corpo e della mia anima (se l’anima ha delle fibre) la forma-formazione che mi aveva dato allora e che è rimasta, in fondo, la stessa. Confermandomi che, come si è da bambini, si è da grandi. Che il nucleo fondante interno, primario, se uno si guarda indietro, non cambia granché. Ma aprendomi anche a una visione su cui allora, tutta intenta come ero nella fuga dalla famiglia che in effetti avvenne pochi anni dopo, non avevo, o non ricordavo di aver posto, la mia attenzione. Che Cosimo “…viveva accosto a noi quasi come prima. Era un solitario che non sfuggiva la gente. Anzi si sarebbe detto che solo la gente gli stesse a cuore”. Famiglia compresa. Che “le imprese che si basano su una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino.” E ancora, quando organizza una guardia di spegnitori degli incendi dolosi nel bosco, che ”le associazioni rendono l’uomo più forte…e danno la gioia che raramente s’ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c’è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone…”
Grazie Cosimo, e Calvino, per averti incontrato sulla mia strada da bambina e ritrovato ora. Perché penso che nella mia decisione attuale di ritornare a vivere in campagna, dopo un rientro di poco più di dieci anni in città (e chissà che anche nella prima, fatta sui trent’anni e portata avanti per ventidue, non ci fossero reminiscenze di questa lettura) ci sia un po’ di te. Gli alberi, ora, li guarderò da sotto, ma chissà….