‘Sud Afternoon’ e ‘L’Egitto prima delle sabbie’, ovvero dell’ossessione del suono, protagonista il pianoforte. L’ensemble di Boccadoro e Del Corno propone con Universal il live del concerto omaggio a Franco Battiato del 2009
Nessuna bandiera bianca che sventola sul ponte, né palome che fanno cucurucucù; quel che suona nell’album che Sentieri Selvaggi offre alla sua mai sopìta memoria – e Universal pubblica in sola versione elettronica -, è il Battiato che non ti aspetti, anzi nemmeno sospetti sia mai esistito, se appunto credi che lui fosse solo o principalmente bandiere bianche e palome.
Francesco – in arte Franco, come gli suggerì Gaber per brevità – era di più, molto di più. Uomo e musicista di impetuose sorprese e instancabili ricerche. Ora, concluso il suo transito terrestre, è venuto il momento per rendergli giustizia senza riserve. Così, l’ensemble di Carlo Boccadoro e Filippo Del Corno rispetta la propria missione e riscopre il nastro di un illuminato concerto di tredici anni fa in cui nel Festival Sentieri Selvaggi si eseguivano pezzi di Battiato che più astratti, sperimentali, ‘contemporanei’ non si potrebbero immaginare. Due pagine (pagine?) – L’Egitto prima delle sabbie e Sud Afternoon – in cui suonano il pianoforte e i suoi fantasmi.
Sono mezz’ora circa di musica ma, attenzione, l’ascolto è molto severo: chiede disponibilità, concentrazione, pazienza e attitudine alla spiritualità. Con Battiato, non poteva essere diversamente.
L’Egitto prima delle sabbie (pianoforte solo, quindici minuti circa) è sostanzialmente un arpeggio, ostinatamente, simmetricamente ripetuto, al quale il pedale e un calibrato gioco di rilasci differenziati dei tasti aggiungono risonanze che paiono eco elettroniche. Domina l’immobilità. Il tempo è sospeso.
Sud Afternoon (due pianoforti, diciannove minuti) è più ‘costruito”’ ha un percorso, un ‘movimento’, perfino qualche passaggio maggiore-minore. Comincia con un accordo messo giù, semplice e spoglio, cui in progressione altri accordi vengono aggiunti, via via più percussivi e asimmetrici, con alcune pause imprevedibili. Anche qui, la stessa tecnica di rilascio differenziato dei tasti, unita all’uso de pedale, libera risonanze in cui gli armonici aggiungono uno scenario acustico fatto di respiri sorprendenti.
Un alone di mistero avvolge i due pezzi. Il tempo in cui vennero scritti – termine improprio, considerati i metodi di Battiato – dovrebbe coincidere con il 1972-73 di Fetus, Pollution e Sulle corde di Aries. Ma forse possono risalire a prima. Antonio Ballista e Bruno Canino hanno registrato nel 1978 un’esecuzione di Sud Afternoon che ha fatto da guida per la ricostruzione degli abbozzi di Franco, quasi illeggibili, in occasione del concerto del 9 giugno 2009, al Teatro I di Milano, in cui Andrea Rebaudengo e Carlo Boccadoro hanno letteralmente rigenerato il pezzo. Il nastro, inabissatosi da qualche parte, riemerge fortunosamente dagli archivi: Sentieri Selvaggi Plays Franco Battiato (Universal) è il live di quel concerto.
Dal 9 giugno 2009 riemerge anche l’intervista (con pubblico) che Filippo Del Corno fece a corredo del concerto. Merita di essere riletta, perché fa tornare vivo Battiato, racconta chi e come fosse l’autore ‘contemporaneo’, da quale frenesia fosse attraversato. Con quale immediatezza e understatement parlasse di musica e di sé.
Filippo del Corno – Partirei da questa apparente curiosità, che non è solo curiosità, ma può svelare forse qualcosa di più sull’atmosfera culturale che ti circondava all’epoca della composizione questo pezzo. Ossia la motivazione del titolo: L’Egitto prima delle sabbie.
Franco Battiato -In effetti sono partito dal titolo. Avevo letto… sono sempre cose col punto interrogativo naturalmente: si dice che la civiltà precedente quella del deserto fosse una civiltà straordinariamente elevata, che viveva in una specie di incanto: alberi, fiori speciali… Insomma ci ho creduto…
All’interno del tuo percorso di lavoro, qual è stata la molla che ha fatto scattare l’interesse per l’idea di utilizzare la risonanza del pianoforte?
C’è stato un approccio proprio fisico al suono del pianoforte e alle sue risonanze. Diciamo che dal 1969 in avanti mi sono accorto che avevo una forte tendenza alla sperimentazione, esageratamente. Andai a comprare uno strumento elettronico che avevano appena costruito… avevo letto di questo Vcs 3. Veramente ne ho comprati due e li ho poi utilizzati fino alla nausea. Chi l’aveva inventato mi ha spiegato come funzionava in casa sua e quindi lo ebbi prima che uscisse sul mercato. Aveva anche una memoria collegata, per cui creava delle sequenze che poteva accelerare, decelerare, si poteva passare dall’una all’altra. Mi piaceva da pazzi, per esempio, prendere una cantante lirica che faceva un urlo, la mettevo in un inviluppo, la passavo attraverso un filtro e sembrava che la strozzassero (ride). Ne ho fatte di tutti i colori… Per esempio nel 1970 stavo preparando il mio primo album di musica elettronica e amavo da pazzi Bach. Presi l’Aria sulla quarta, che però aveva un metronomo… e siccome non potevo comprarmi un’orchestra ed eseguirla alla mia maniera, avevo la necessità di decelerare il brano. Quindi su un giradischi misi dei pesi, che rallentavano i giri, e sperimentai una specie di campionatore ante litteram registrando gli astronauti dell’Apollo Nove e mischiando le due cose. Quindi c’era l’Aria sulla quarta corda rallentata, con l’aggiunta di un riverbero che aumentava la dimensione diciamo plastificata e anche metafisica, da un certo punto di vista, in contrasto con le voci filtrate. Tanto che mi dicevamo: ma hai preso la pillola? Poi ho lavorato per circa sei mesi ininterrottamente in questa dimensione: avevo all’epoca uno strumento che si chiamava Revox, un registratore, ne usavo due contemporaneamente e quindi lavoravo su dei nastri che avevo imparato a tagliare… sei mesi per produrre un brano della durata di circa sette minuti, ma che aveva migliaia di tagli… avevo selezionato musiche concrete, voci di mercato, tutto insieme: un collage che trasmettevano anche in radio. Ma era un’altra epoca quella… (ride)
A proposito di questo collage e del luogo in cui ci troviamo, non posso dimenticare che a dicembre, in questo teatro, Sentieri Selvaggi, ovvero Andrea Rebaudengo, il nostro pianista, ha eseguito Finale di Paolo Castaldi a distanza di più di trent’anni dalla prima esecuzione. Allora Castaldi stava lavorando molto sul pianoforte e ha scritto questo meraviglioso brano. Volevo chiederti: quali erano i tuoi rapporti con i musicisti contemporanei dell’epoca, in particolare con Paolo Castaldi. Se in un certo senso il suo lavoro ti ha influenzato o comunque sentivi di far parte di quel mondo.
Sinceramente no. Mi piaceva il lavoro di Paolo, anche perché detestavo quella congregazione di potere che c’era dall’altra parte… Lui era un discriminato e quindi stavo con lui così, naturalmente (ride). Ma devo dire no, non influenzato. Paolo è sempre stato un intellettuale, io sono stato sempre un musicista che ama il suono, non l’idea del suono. Infatti questo brano (L’Egitto prima delle sabbie) non chiede niente, cioè non parla di sentimento né di ragione, ed è un brano che a poco poco esclude i pensieri per creare uno stato sonoro che non esprime altro che se stesso. Insomma, per far questo devi avere una passione sfrenata per il suono… Quando comprai quel sintetizzatore… insomma era una droga per me: passai notti insonni, e io amo dormire. Per me lavorare di notte sarebbe un incubo, però ero così eccitato… era come una macchina del tempo: mi trovavo ad armonizzare alla maniera greca e non so quanti viaggi interessantissimi ho fatto… un abbandono del proprio tempo, della propria personalità… veramente un viaggiare sul suono per mete sconosciute… insomma, questo era quello che facevo. Poi (ride) fortunatamente ho cominciato a guadagnare soldi quando ho cambiato registro. (Applausi).
Un aspetto che è molto evidente in questo brano, e che ricorre come un fiume carsico nel tuo lavoro, è l’amore per il diatonismo, cioè per l’armonia diatonica, che ritorna ad esempio all’inizio di Genesi, la tua opera andata in scena al Teatro di Parma. Ma quello che vorrei chiederti è se c’è una relazione tra questo amore per il diatonismo e le teorie di Gurdjeff rispetto alla relazione che esiste tra toni, semitoni e l’armonia universale.
Ti faccio i complimenti per la preparazione, ma devo dire che non ho mai mischiato… non so come dirti… è strano, ma è come se avessi un’appartenenza alla musica, e quindi alle regole che la governano, come certi preti dovrebbero avere con la chiesa… insomma è difficile che io vada fuori. Le teorie di Messiaen, sebbene sia un compositore che ho stimato per tanti motivi: il rapporto suono e colore non mi ha mai interessato. Il colore è una cosa, il suono è un’altra: tu puoi anche attraverso il terzo occhio vedere un suono, ma non è importante vedere il suo colore. Ho una aderenza al suono per se stesso, per le sue leggi. Quando Stravinskij diceva, appunto, l’idea di essere libero mi spaventa, devi mettere dei paletti… Quando uno fa quello che vuole e lo fa da umano, è un disastro.
Tornerei sulla caratteristica di cui parlavo presentando il brano, che è lo scorrimento del tempo: che significato aveva per te questa idea di un tempo che si sottrae all’orologio?
Come ti riferivo ieri durante le prove, scrissi un piccolo testo di presentazione per una esecuzione che fecero al Conservatorio negli anni Settanta. Notavo che è un brano che sembra molto più lungo di quel che è. Allo stesso tempo, tra parentesi, so cosa potevano dire i maligni: è così noioso che ti sembra non finisca mai (ride). Ma in realtà da subito, cioè da quando ho preso coscienza della mia esistenza, ho lavorato sul trascendere il corpo. Utile, per carità: all’uomo serve, ma è un sarcofago… Insomma, quando trascendi le leggi del corpo entri in zone assolutamente interessanti.
Sarei anche curioso di sapere, non dico il tuo procedimento compositivo, ma come hai lavorato quando ti è venuta in mente questa idea. Cioè, se sei andato avanti per progressive approssimazioni oppure hai avuto subito chiara l’idea che il pezzo sarebbe dovuto funzionare così.
Prima di questo brano, feci come esperimento un pezzo che si chiamava Za ed è molto più duro di questo, cioè utilizza la stessa tecnica, però è inesorabilmente percussivo quindi le risonanze avvengono dopo … (Musica) È ancora più ossessivo, quindi quando lui (Antonio Ballista, ndr) lo eseguì a Bergamo pare che dal loggione gli gridassero di tutto (ride), ma è così, lui si diverte, il brano lo rallentava apposta (ride ancora)… Mi affascinava questa possibilità del rilascio. Iniziai mettendo giù un accordo e quando cominciavo a mollare le dita, sentivo che il pedale tonale creava come un basso continuo, e le risonanze diventavano il contrappunto. A volte entravo talmente nella risonanza che proprio si moltiplicavano le armoniche, creando altre micro melodie… era veramente una droga per me.
Tra l’altro, bisogna ricordare che a quell’epoca avevi la possibilità di contare su musicisti eccezionali come compagni di strada: appunto Antonio Ballista, Bruno Canino. Parliamo brevemente dell’altro lavoro che ascoltiamo oggi, Sud Afternoon. Anche il titolo mi incuriosisce molto.
Innanzitutto vi devo ringraziare pubblicamente perché avete fatto un lavoro straordinario. Io sono per natura l’opposto di Stockhausen, che era un fanatico della storicizzazione dei suoi lavori. Non so come dire: non ho mai catalogato quel che faccio, non tengo niente, neanche i numeri di telefono, e quindi questa partitura non si è più trovata. I vostri pianisti hanno ricostruito tutto dal disco e ci vuole una pazienza notevole per capire… le risonanze, l’accordo… Insomma vi devo ringraziare. Il titolo Sud Afternoon? Potrebbe essere una canzone: pomeriggio del sud, anche se l’inizio è più giapponese che siciliano. (ride)
Chiuderei questa conversazione sempre su Sud Afternoon, rispetto a una percezione molto forte che si ha nell’ascoltarlo e che ha a che vedere con il rapporto tra l’armonia e il ritmo. La percezione degli accordi dipende molto da come questi sono scanditi nel ritmo e nel tempo. Tu hai sempre praticato l’improvvisazione, e allora volevo chiederti che rapporto al principio c’era fra l’attitudine fisica dell’improvvisazione e il lavoro compositivo nel mettere poi su carta un brano come Sud Afternoon.
Sono due mondi completamente diversi. Per me l’improvvisazione era un mettermi allo sbaraglio. All’epoca qualcuno del pubblico si lamentava, giustamente, perché l’improvvisazione nasconde spesso un tranello insuperabile; cioè se tu non sei in serata giusta, dentro, rischi di non tirar fuori niente. Per me era anche una sorta di terapia personale, perché a volte mi dimenticavo se ero davanti a un pubblico. Andavo completamente fuori, e quindi questa identificazione con il suono mi serviva come via d’uscita. Quando rientravo da un intervallo, mi dicevo: ah ma c’è gente! Una cosa scioccante.
Hai raccontato che una volta ti capitato di rientrare e di non trovare più nessuno.
No, quello è un fatto più recente ma non c’entra con questo. È successo in Turchia. Mi trovavo a cena, in un paesino delizioso di fronte al Mare Egeo, in vacanza, e avevo visto una locandina che annunciava un festival etnico in cui c’erano tutti i miei miti: l’Albania, il Kurdistan, la Macedonia… Tutto raccolto in dieci-quindici gruppi. Mi sono detto: quasi quasi vado a chiedere di suonare qualcosa anch’io. Risposta: se non chiedi soldi (ride), nessun problema. Di cosa hai bisogno? Dico: una tastiera. Ma guarda, ti dico subito che il programma è già fissato e potrai suonare verso mezzanotte. Benissimo. Beh, si rivelò una sòla che solo in Medio Oriente ti può capitare. Perché arriva un tale claudicante che suonava la viola e uno con un tamburo. Per esempio erano, che so, i curdi: bum bum bum. Escono e ritorna questo con la viola, che era parente di tutti praticamente, e via così. Dopo circa due ore e mezza di musica insopportabile, arriva il mio turno. Ah, devo dire un anfiteatro meraviglioso con tremila persone! Vi giuro, non sarà passato più di un minuto: con la mano sinistra ho messo giù un accordo e con la destra ho fatto un’assolvenza lentissima perché, dicevo tra me e me, devo liberare questo spazio dalla porcheria che ho sentito. Quindi un accordo così, una specie di cluster che veniva su piano piano piano. Io ad occhi chiusi, concentrato dentro di me. Apro gli occhi e non c’è più una persona. Cioè nessuno! (risate e applausi). Vi ringrazio per questo applauso. Graditissimo: come dire, te lo sei meritato. Gli organizzatori mi volevano confortare. Ma, dico, non preoccupatevi… hanno pensato che fosse la musichetta della buonanotte (ride). Poi ho capito perché non me ne sono accorto: avevano tutti le scarpe di pezza. Ma vi giuro che per un milionesimo di secondo ho avuto la sensazione di essere pazzo. Ma io le tremila persone le ho viste? Un dubbio ti viene, no? (Fine, applausi).
In apertura, foto di Battiato di Giovanni Canitano.