Elena Arvigo e Antonio Zavatteri riportano in scena la crisi affettiva del “Bosco”, dalla metropoli alla campagna, ma il gioco alla Stanislavskji non riesce a trovare un baricentro
Ritrovare la propria purezza, quell’io autentico e naturale che in città, si sa, corre il rischio di sformarsi, di deteriorarsi fino a generare nevrosi, apatie, perfino crolli emotivi. La ragione che ha spinto Nick e Ruth, coppia in crisi, a cercar riparo nella casa di famiglia di lui, un buen retiro in riva a un lago circondato da boschi, sembra essere proprio questa: la necessità di una fuga ritemprante che attivi nuovamente i gangli di un sentire sopito, anestetizzato dal tran tran metropolitano. Torneranno i due “ad essere liberi e finalmente capaci di amare?”
Se lo chiede Elena Arvigo che, a distanza di quattro anni, riporta sulle scene Il bosco di David Mamet, drammaturgo premio Pulitzer, nonché prolifico sceneggiatore di Hollywood (due titoli su tutti: Il postino suona sempre due volte, Gli intoccabili). Accanto all’attrice-regista, impegnata sui palcoscenici teatrali quanto sul piccolo/grande schermo, troviamo, in questa nuova edizione, un Antonio Zavatteri in exploit di visibilità, grazie all’interpretazione del contabile di Gomorra-la serie a cui si è aggiunta di recente l’apparizione in Mia madre di Moretti.
L’equazione sembra semplice: una coppia di validi attori dalle ottime credenziali, un testo – di dichiarata ispirazione cechoviana – incentrato sulla parola, sulle nuance psicologiche dei personaggi e lo spettacolo pare già proiettato verso il migliore degli esiti. Attenzione però agli abbagli, come avverte la stessa Ruth, (“vediamo le cose che nuotano e invece stanno semplicemente galleggiando”): pur richiamando, fin dal titolo, il mondo del fiabesco (seppur nel suo substrato psicanalitico) il lieto fine della piéce non è affatto assicurato.
Arvigo e Zavatteri non riescono infatti a sventare uno dei potenziali rischi dell’opera: la carenza di resa immaginifica. Affidata al verbo, a un testo che si proclama poetico (nelle note di regia si parla addirittura di una partitura drammaturgica in versi liberi), la tensione immaginativa s’infrange nella logorrea di Ruth-Arvigo quanto nella laconicità di Nick-Zavatteri, trasfigurandosi in una prosa psicanalitica piuttosto piatta, in un descrittivismo infecondo che rischia di demotivare lo spettatore.
Anche a livello scenografico la questione appare evidente: la suggestiva selva di imposte, gelosie e persiane (il simbolico bosco cittadino in cui si sono persi i due) viene relegata sullo sfondo, mentre in proscenio troviamo la veranda in cui si svolge l’intera vicenda, in una ricostruzione tanto accurata nei dettagli quanto accessoria ai fini della narrazione. Osservando l’incedere claudicante dell’esposizione (che sembra a tratti addirittura girare a vuoto), i piccoli cortocircuiti di senso che danno vita a (involontarie?) gag da teatro dell’assurdo, viene da pensare che i due attori si siano spinti troppo in là nel gioco stanislavskijano, diventando essi stessi ostaggio del disorientamento emotivo-comunicativo dei propri personaggi.
Poi però ci si ricorda che, come per le fiabe, esiste sempre anche una lettura superficiale, un’interpretazione meno sofisticata: le prime teatrali sono sempre rappresentazioni a rischio e, come nel bosco, l’eventualità di smarrirvisi è quasi un luogo comune.
(Foto di Fabrizio Pezzoli)