E’ ambientato a Damasco, nei tragici momenti dell’ultimo conflitto, il secondo film dell’ottima regista siriana Soudade Kaadan, già premiata grazie al lavoro di debutto, nel 2018, alla Mostra di Venezia. Una casa distrutta da una bomba e una famiglia lacerata tra la voglia di non arrendersi e restare, o partire in cerca di un futuro migliore. E un giovane sentimento che sboccia, insieme alla speranza, tra le macerie, materiali e non solo, di un terribile presente. Raccontato invocando la poesia
A Damasco la guerra infuria e tutto distrugge. Apre buchi nel soffitto delle case, disintegra le pareti, rende la vita quotidiana un inferno desolato. Eppure, nonostante tutto, non annienta la speranza: e così, attraverso un buco può passare lo scambio amoroso, acerbo e incantevole, fra due adolescenti, un po’ ingenui, un po’ incauti. Uno scambio del tutto casto, appeso a una corda, all’immaginazione che sa costruire meraviglie e cerca sempre nuove vie per sopravvivere. Motaz, il padre, vorrebbe restare, a qualunque costo, nella sua casa e nella sua città. È nell’attaccamento al suo luogo, nel rifiuto di diventare uno dei tanti profughi sulle vie del mondo, che esprime la sua identità.
Sua moglie Hala e la giovanissima figlia Zeina sembrano al contrario bisognose di esprimere la propria identità con la fuga, con la scelta di non-essere, con il tentativo di raggiungere un altrove. A qualunque costo. Il nucleo profondo di senso e poesia di questo film affascinante è proprio questo: l’altalena drammatica fra restare e andare, essere e divenire, fra piantare radici, riparare buchi, resistere a qualunque intemperia. Oppure al contrario arrendersi alla forza che trascina via, e migrare, farsi leggeri, fluidi, come acqua trovare la propria forza nel movimento. Voragini ostinatamente da riempire o nuovi mondi da scoprire? Difficile trovare una risposta univoca, impossibile trovare un equilibrio davvero appagante.
Raccontare la guerra invocando la poesia, mettendo in scena un ragazzo e una ragazza che scoprono l’amore e intrecciano sospiri e singhiozzi, è una scommessa tutt’altro che facile. La regista siriana Soudade Kaadan ci riesce nel suo nuovo film Nezhou – Il buco nel cielo, confermando il talento già evidente nel suo primo film, The Day I Lost my Shadow, premiato nel 2018 alla Mostra del cinema di Venezia. Lo stile è molto simile. Potremmo parlare di una sorta di realismo magico, capace di esplorare l’universo delle emozioni senza dimenticare la cronaca, di parlare della guerra in Siria dal punto di vista della vita quotidiana di chi non ha altra scelta che tentare di sopravvivere, ogni giorno, ogni momento, e al tempo stesso individuare simboli capaci di ampliare l’orizzonte. Facendoci così sentire – sulla pelle, negli occhi, nelle orecchie – una verità terribile e indispensabile: che nessuna guerra è davvero lontana, che ogni violenza ci riguarda, perché interpella sempre, nonostante tutto, il nostro essere umani.
Nezhou – Il buco nel cielo di Soudade Kaadan, con Hala Zein, Kinda Alloush, Samer al Masri, Nizar Alani, Darina Al Joundi