Alternativa al tempo cupo, alternativa alle liste inutili di buone intenzioni per l’anno appena cominciato: in questo 2016 programmare e regalarsi bellezza
Adoro i buoni propositi. Mi sono sempre piaciuti, fanno parte del bagaglio pseudocattolico che mi accompagna dall’infanzia, insieme al senso di colpa e ai fioretti. Non sono una meraviglia, i fioretti? Metti in ordine la tua stanza e fai contento Gesù Bambino. Finisci le carote, ubbidisci alla nonna, lascia che Michela giochi con la tua Barbie: bastava niente per essere felici.
I buoni propositi fanno parte di quel mondo, e da sempre li coltivo con passione, lasciandoli germogliare negli spazi risicati tra pensieri concreti (spesa, lavatrice, compiti da correggere) e il romanzo che sto scrivendo. A fine anno, scatta persino la lista: perdere cinque chili; finire l’Ulysses; andare in palestra almeno tre volte a settimana (almeno è parola che regala al buon proposito orizzonti leopardianamente infiniti); niente zucchero nel caffè, niente cibi precotti; leggere almeno 60 libri all’anno.
Belli, vero? Hanno quel sapore di cosa buona e giusta, etica ma più che altro estetica, di palingenesi a portata di mano.
E niente, quest’anno non me ne vengono. L’unico buon proposito che ho è scrivere questo pezzo sui buoni propositi, ma tergiverso, la tiro in lungo perchè la verità è che non ho niente da scrivere. Ho anche fatto l’esame di coscienza (vedi il bagaglio di cui sopra), e nella mia testa non ho trovato neanche un solo minuscolo buon proposito. Perchè?
Prima spiegazione: invecchio, e ho imparato che i buoni progetti si realizzano, i buoni propositi mai. La spiegazione però non mi convince, perchè l’autentico buon proposito ha natura intenzionale e contemplativa: contempli la donna che potresti essere e ne godi, punto.
Seconda spiegazione: invecchio, e ho più passato alle spalle che futuro davanti. Quindi non c’è spazio per i buoni propositi. Però non sono così vecchia e poi l’ha scritto anche Francesco Piccolo su La Lettura (il numero prenatalizio con le lucine e gli auguri): per lo Scrittore il Futuro è essenziale, sennò non scriverebbe, visto che ogni libro ha dentro la progettualità e il tempo lungo della scrittura. Vero, verissimo: per finire il nuovo romanzo mi ci vorranno almeno due anni.
Ma oltreché vero, quello che scrive Piccolo è nobile, alto, bello da matti. Mi piace pensarmi così, proiettata in avanti quando tutti predicano che il Futuro non esiste più, perchè ce l’hanno rubato i Cattivi, la Generazione Precedente, i Garantiti, la Crisi, l’Isis. Che poi io non ci credo, che ce l’hanno rubato, ma sarebbe un discorso lungo, e non c’entra con i buoni propositi, diciamo solo che ciascuno gioca la sua partita, e quella specifica tra Scrittori e Futuro si svolge su un terreno meno nobile alto e bello, temo, rintracciabile piuttosto dalle parti dell’Ego: se lo Scrittore crede nel Futuro è anche perchè spera che, prima o poi, arrivi il Capolavoro (io, ad esempio, quando sono giù di corda, mi faccio coraggio pensando che Magda Szabò ha scritto La porta che andava per i settanta).
Sta di fatto che siamo al 31 dicembre e quell’allegro frullare di buoni propositi nella mia testa non c’è. Tra un’ incombenza e l’altra continuo a distrarmi, cazzeggio, ma non indugio più sul pensiero dei cinque chili che perderò o sul caffè amaro che berrò nel 2016. Piuttosto consulto il sito del Teatro Carlo Felice di Genova (Bohème, poi Don Giovanni), il cartellone del Regio di Torino, il programma del Piccolo Teatro (come sarà questo Virgilio brucia?), e do uno sguardo alle mostre in corso: Hayez o Cartier-Bresson? Monet alla GAM? E perchè non un salto al KW di Berlino? Confronto, prendo appunti su post-it, controllo l’agenda. Stendo un piano che ha la stessa concretezza, temo, dei vecchi buoni propositi. Ma attenti: quest’anno non programmo Trasformazione, programmo Bellezza. Guardando avanti, penso a cose belle. Non mi vedo diversa, ma così come sono, chili e tutto, però dentro cose belle, e forse questo un po’ c’entra con il tempo cupo in cui viviamo.
Mi viene in mente Si alza il vento di Hayao Miyazaki. È la storia liberamente romanzata dell’ingegnere aeronautico Jiro Horikoshi, ideatore di “Zero”, velivolo da combattimento in uso presso l’esercito imperiale giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. Parla di guerra, di crisi (quella del ’29), di malattia e di morte. Miyazaki l’ha disegnata anche se è una storia decisamente fuori dal target dei film di animazione e anche se il magnifico “Zero” è uno strumento di guerra, e Miyazaki un pacifista.
Se avete visto i suoi film, saprete che ha un debole per tutto ciò che vola, siano uccelli, nuvole, draghi, scope, idrovolanti o dirigibili. Poteva sfuggire al fascino di “Zero”? Un giorno ha letto una dichiarazione dell’ingegner Horikoshi, «tutto quello che volevo fare era creare qualcosa di bello», e ha capito che, target o no, doveva farci un film. Che c’era tanto da dire, un intero film sulla Bellezza e sul fatto che ci fa sentire vivi, e umani, perchè è l’opposto della guerra. Perchè è la risposta degli umani alla morte. Ecco, mi sa che per questo, oggi, 31 dicembre 2015, in questo Paese che vive un tempo tanto cupo, io ne sento così il bisogno. Bisogno, non desiderio. Miyazaki comunque lo dice meglio di me, e senza farla tanto lunga. Adesso controllo se per Bohème c’è ancora posto. Se anche voi vi sentite così, guardatevi il film: è bellissimo.
Immagine di copertina di Whtiney G