“Filosofia della canzone moderna” è un titolo impegnativo. In realtà il primo libro del nobel per la letteratura del 2016 è poco filosofico e molto a stelle e strisce. Una playlist per assaporare il gusto del ricordo. Bing Crosby e Johnny Cash, Ry Cooder ed Elvis Presley ma anche, a sorpresa, Domenico Modugno
Si può essere perplessi di fronte a Bob Dylan? Divertiti ma perplessi? Un “dylaniato” da una vita come me se lo può permettere. Filosofia della canzone moderna, il primo libro del nostro dopo il Nobel per la letteratura del 2016 (Feltrinelli, traduzione del fedelissimo Alessandro Carrera, 340 pagine, 39 euro), è uno strano masso erratico che si è staccato dal ghiacciaio in ritirata del pop e del rock. Così come il suo libro precedente, Chronicles vol. 1 del 2004, era una falsa autobiografia, questa non è una “filosofia” ma una serie di divagazioni attorno alla musica, all’America e alle cose della vita. Freewheelin’, a ruota libera, com’è nel suo stile. Spesso profonde, non di rado spassose, a volte soltanto eccentriche. Per esempio nelle pagine velenose sulla fine dei matrimoni e gli avvocati divorzisti nella recensione a Cheaper to keep her di Johnnie Taylor, anno di grazia 1973: «Matrimoni misti, matrimoni gay: i loro sostenitori hanno giustamente fatto pressioni perché divenissero legali, ma nessuno ha combattuto per l’unica cosa che davvero conta: il matrimonio poligamo».
Dunque niente filosofia. E niente “canzone moderna”, al massimo canzone a stelle e strisce. Perché questo è un libro molto americano e Dylan qui è più americano che mai. «L’America è sempre stata un grande crogiolo, ma alcune cose sono state create qui e poi restituite al mondo. È eccitante guidare una Ferrari, ma Detroit sarà sempre la casa dell’automobile. Stéphane Grappelli è un bravo musicista, ma per il cuore pulsante del jazz si deve tornare a King Oliver, Buddy Bolden e Louis Armstrong. Fellini, Kurosawa e i loro colleghi in tutto il mondo hanno realizzato film fantastici, ma sappiamo tutti dove l’industria del cinema si è presa la sua prima botta sul sedere e ha fatto il suo primo vagito». Banalità patriottiche, posso dire? O forse soltanto nostalgia per un passato luccicante da rimpiangere, nella profonda crisi interna in cui versa l’impero e che trova eco anche in queste pagine.
Le canzoni che formano il “canone” dylaniano, ma sarebbe più appropriato parlare di una playlist compilata un po’ per stupire e battere strade secondarie e molto per assaporare l’amarcord, sono in questo libro 66. Sessantadue made in America, tre inglesi (Pump it up di Elvis Costello, My generation degli Who e London calling dei Clash, Beatles e Stones soltanto citati tra le righe, e tra i Beatles più Lennon e Macca che l’amico George Harrison) e una italiana (Volare di Domenico Modugno). Più due omaggi indiretti alla Francia e alla Germania: Beyond the sea versione americana di La mer di Charles Trenet, Mack the knife di Brecht e Weill, entrambe nella versione di Bobby Darin. «Come Eric Clapton, Jack Nicholson e un numero sorprendentemente alto di persone, Bobby visse in una famiglia fondata su una menzogna iniziale. La donna che gli fu fatto credere fosse sua sorella era in realtà sua madre, rimasta incinta in giovane età senza essere sposata, nascosta quando fu vicina a partorire e cresciuta con un figlio come fratello. La madre affettuosa che lui credeva di avere era in realtà sua nonna. È una ragione sufficiente per entrare nel mondo dello spettacolo». Avete capito bene, il libro privo di introduzione è composto da 66 schede di canzoni. Raccontate, a volte svelate per il senso riposto che possono avere o che lasciano intendere (con un’interpretazione vagamente terroristica, alcune delle canzoni più smielate gli suggeriscono l’immaginario di un serial killer) e indagate per le vicende dei compositori e degli interpreti, con una ricca messe di aneddoti.
Facciamo un po’ di calcoli, caviamoci il gusto di essere ragionieri pignoli. Delle 66 canzoni, quattro appartengono al primo ‘900 (una addirittura risale all’800, Nelly was a lady di Stephen Foster, l’autore di Oh Susannah); ben 28 agli anni ‘50 della fanciullezza e della prima giovinezza del nostro e sono le centrali, 13 agli anni ‘60, 14 agli anni ‘70. Sparuta la pattuglia delle più recenti: soltanto sei canzoni risultano posteriori al 1980. E soltanto una è del nuovo millennio: Dirty life and times di Warren Zevon del 2003, con un generoso omaggio a uno dei musicisti che più amo: «Qui c’è Ry Cooder che suona, e Ry Cooder è uno che ha una missione nella vita. Non c’erano mappe stradali là dove cercava di capire qual era la connessione tra Blind Lemon Jefferson e Blind Alfred Reed, il luogo dove il conjunto incrocia il blues più primitivo, dove perfino uno che è rimasto paralizzato dall’abuso di liquore clandestino può mettersi a ballare il cakewalk. Ry tutto questo l’ha vissuto e respirato, imparando ai piedi dei maestri e portando con sé la conoscenza appresa come un carico di semenza, da regione a regione. Ha reso migliore ogni disco in cui ha suonato e anche molti in cui non ha suonato».
Questi sono gli anni: un lungo rimemorare tra brani forse non tutti memorabili ma che hanno costruito l’educazione sentimental-musicale del giovane Dylan, che a 81 anni come accade ai vecchi ha la vista lunga sul passato e lo sguardo appannato o indifferente sull’oggi. E che come accade agli autori blasonati guarda soprattutto alla forma semplice della canzone, alla rima cuore/amore “la più antica difficile del mondo” come scriveva Umberto Saba. E gli stili? Una ventina di canzoni, più o meno un terzo del totale, sono prelevate dal repertorio del folk e del country: trovate Johnny Cash e Willie Nelson, Marty Robbins e Waylon Jennings, c’è Pete Seeger che gli staccò la spina a Newport nel 1964 quando Dylan per la prima volta suonò la chitarra elettrica in un concerto ma manca, ed è strano, il maestro e idolo di gioventù Woody Guthrie, come a volere archiviare un passato molesto.
Per il resto, blues soul e r&b hanno quattordici canzoni: Ray Charles e i Platters, i Temptations e Jimmy Reed, Nina Simone e Little Walter; il pop ne ha dodici, con una predilezione per i crooner (Perry Como, Bing Crosby, Dean Martin, ovviamente Frank Sinatra). Residuali le altre presenze: sette canzoni per il rock’n’roll originario: Carl Perkins e altri interpreti della Sun, ma la parte del leone la fanno Elvis e Little Richard; sei per le band americane (Eagles, Santana, Grateful Dead e Allman Brothers, neanche un cenno alla Band che fu il suo gruppo); e cinque soltanto per i cantautori a lui affini: Warren Zevon appunto, Jackson Browne e Roy Orbison. Con un toccante omaggio ai due fuorilegge di Poncho and Lefty del grande e autodistruttivo Townes Van Zandt, qui riproposta nella versione di Willie Nelson e Merle Haggard. E un ritratto alto e colmo di passione civile, tra le cose più notevoli di questa Filosofia, dedicato a John Trudell, attivista dei nativi americani e grande trascurato cantautore, che ebbe moglie e figlie uccise da un incendio alla sua casa appiccato da fanatici della destra americana.
Canzoni come pezzi di autobiografia intima, come pezzi di un’America che fu grande e che fu nostra. Se passo in rassegna la mia vita, la sua, mi viene difficile riconoscermi in certe sue canzoni non da export (ma Dylan è un più che profondo conoscitore del lascito americano: tra il 2006 e il 2009 tenne una trasmissione radio settimanale, Theme time radio hour, con 105 episodi che trovate raccontati su Wikipedia americana con tanto di playlist che è dolce e divertente esplorare, una puntata dedicata al tempo e una alla madre, una al baseball e una al caffè, una alla prigione e una al matrimonio, una al bere e una ai padri…) ma riconosco che la mia educazione non soltanto musicale è stata per gran parte – luminosi esempi inglesi a parte: dove siete finiti, con la Brexit? – americana. Strana contraddizione, strana schifofrenia. Manifestavamo contro la guerra in Vietnam – anche la loro gioventù lo faceva – e contro l’imperialismo, ma i nostri punti di riferimento erano americani, come lo sono stati per i nostri padri ai tempi del fascismo. E oggi, leggendo questo autunnale quasi invernale Dylan rattrappito sulla sua giovinezza, mi viene da dire che sì, stiamo ancora con l’America se non torcia della libertà male minore, rispetto al nuovo ordine asiatico che avanza.
E allora bentrovato anche al vecchio Dylan, che dal cuore di quello che prova ancora a essere un impero ha un piccolo elogio anche per noi piccoli italiani. Quando dice a proposito di Volare che «questa potrebbe essere stata una delle prime canzoni psichedeliche, prima di White rabbit dei Jefferson Airplane. Una melodia più accattivante di quanto potrai mai sentire. Anche se non la senti, la sentirai. È una canzone che si insinua nell’aria». Grazie, anche se non ce lo vedo Mimmo Modugno a fare il fricchettone a San Francisco nella breve stagione del peace and love. E grazie per avere scritto: «C’è qualcosa di davvero liberante nel sentire una canzone cantata in una lingua che non conosci (…) Certamente, il tedesco funziona per un certo tipo di polka per la festa della birra, ma datemi sempre l’italiano con le sue vocali gommose al caramello e il suo vocabolario polisillabo melodioso».
Sono soddisfazioni. Anche se dalle nostre parti, caro Bob, tu non lo puoi sapere, si canta, si cantava, chi la interpretava ha anche vinto a Sanremo, Si può dare di più. Per fortuna il Nobel te l’hanno assegnato per le canzoni.