Giuseppe Dipasquale adatta il racconto di Camilleri insieme allo scrittore stesso: ne viene fuori un’opera sospesa tra mito, sogno e contraddizioni, valorizzata da un grande Ovadia
Si ripete spesso che Milano sia diventata una colonia di siciliani. Non avranno problemi, di conseguenza, ad affollare le sale del teatro Carcano, dove va in scena la riduzione teatrale del Casellante, uno tra i racconti più famosi di un autore che con la Sicilia ha giocato di re-invenzione e trasformazione: Andrea Camilleri.
Scritto nel 2008 e pubblicato – chiaramente – da Sellerio Editore, Il Casellante si trova a metà esatta del ciclo dei miti immaginato dall’autore di Porto Empedocle, pubblicato dopo Maruzza Musumeci e prima de Il sonaglio.
L’allestimento teatrale, firmato da Giuseppe Dipasquale (che cura anche la regia) e da Camilleri stesso, presenta più d’un elemento interessante.
Prima di tutto: l’impostazione. La regia di Dipasquale immerge il già evocativo contesto ideato da Camilleri in un mondo fatto di suggestioni, se possibile, ancora più amplificate. Il siciliano diventa non solo idioma, espressione d’oralità, ma soprattutto sonorità, rappresentativa non solo della capacità di “parlare”, ma di essere “suono”, rumore, effetto.
Non a caso sulla scena irrompono, prima degli attori, i musicisti Antonio Vasta, fisarmonicista e pianista, e Antonio Putzu, al clarinetto e al duduk, uno strumento armeno di grande impatto, in grado di dimostrare come le sonorità orientali possano tradurre l’esplosiva intensità delle emozioni mediterranee. La musica si intreccia alla contraddizione irrisolta che sta in seno a una terra come la Sicilia. Un luogo dove le parole si mescolano in continuità disordinata, dove la moralità ama trasformarsi in fantasia, dove non esiste una reale separazione tra realtà e immaginazione.
A salvarci, allora, intervenga il racconto, pardon, il cunto: il fascismo nella Sicilia degli anni Quaranta, i dolori dei suoi abitanti, la magia e il profumo di una porzione di mondo che non vuole assomigliare mai a se stessa.
In armonia alla musica vivono le interessanti performance di Valeria Contadino e del cantante Mario Incudine, che ricevono sulla propria pelle la ferocia e l’ironia, latori di una dicotomia naturale che si rende evidente in ogni forma: brillante, drammatica, tragica. Lei interiorizza la forza della parola, lui quello della musica. Sono Minica e Nino, il casellante del titolo: “angustiati perché ‘u Signoruzzu non gli ha dato un figlio”, richiesta primordiale che fa da leitmotiv alla storia raccontata. Anelare al parto significa allacciarsi in simbiosi alla terra che produce frutto: questo è quello che pensa Minica, quando smette di interessarsi alla vita umana. Attorno a lei c’è il fascismo, quello storico e quello del pensiero, c’è la mafia, c’è il profumo di Vigata, che torna ancora una volta a picchiettare le vicende firmate da Camilleri. La
Anche se a calare il poker ci pensa Moni Ovadia, vera sorpresa dell’intera operazione: l’attore interpreta una pluralità di ruoli e di visi, e sorprende cogliere la bellezza della lingua siciliana nella sua voce, ora sicura, ora più incerta. Ovada è il collante, il cantastorie che riequilibra le vicende del racconto: le serenate, la barbieria, l’aggressione fatale che fa da ventre allo spettacolo.
Ovadia, va da sé, è il solito fuoriclasse – soprattutto quando interpreta la “mammana”, uno dei sei personaggi non più in cerca d’autore che porta sulla scena. Giuseppe Dipasquale, che di Camilleri ha già adattato Il birraio di Preston e La concessione del Telefono, lavora in sottrazione, consapevole dell’amarezza un po’ agra e un po’ tenera della materia di base. La sua regia è rispettosa dei ritmi e delle regole del conto, emerge in maniera classica e senza osare (forse è meglio così), adeguandosi a uno schema di piacevole anacronismo, in cui tutto odora di antico senza apparire polveroso.
In mezzo a ogni cosa, c’è il canto. Una sinfonia di dolori, un contraccolpo lirico e sentimentale a una, nessuna e centomila storie – ed è già il secondo riferimento a Pirandello. La costruzione del mito in relazione natura, nel genio di Girgenti, è ben più complessa di quella che Camilleri presenta al suo pubblico: laddove Pirandello costruiva templi inossidabili, giganti e montagne, l’autore di Montalbano ragiona in semplicità. Lascia che sia una drammaturgia essenziale a dichiararsi. E il risultato, in fondo, funziona.
(foto di Antonio Parrinello)
Il casellante, di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale, al Teatro Carcano fino al 6 febbraio