Il cielo non è un fondale: il testo di Deflorian e Tagliarini è come una partitura verbale che porta il pubblico alla conclusione che un artista non solo crea come vive, ma vive come crea
Come è insostenibile la leggerezza di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, per la prima volta al Piccolo con Il cielo non è un fondale, ultimo passaggio psicanal-onirico (il prossimo sarà un adattamento di Deserto Rosso di Antonioni, a dimostrazione che il cinema sogna il teatro e viceversa) di una delle coppie più amate e premiate del teatro italiano, in scena fino a domenica 6 maggio insieme a Francesco Alberici e Monica Demuru, bravissimi.
Gli attori intersecano i pensieri con le parole, si disattivano a terra, ci chiedono di chiudere gli occhi ma si ricordano sempre di dirci di riaprirli, così a nessuno viene in mente di sbirciare. E se abbiamo fatto i bravi la Demuru ci canta pure Città vuota di Mina.
Il fondale nero che si vede al Teatro Studio non sarà cielo, ma è il confine di una scena che avanza e indietreggia mentre gli attori divagano per associazioni e dissociazioni di idee, in un’illusione comica a metà tra il sogno e le tante realtà accumulate nel corso della loro vita. Il testo di Deflorian e Tagliarini è una psicopatologia della vita quotidiana, ma in chiave poetica, alla Bachelard, come una partitura verbale che porta il pubblico alla conclusione che un artista non solo crea come vive, ma vive come crea.
Antonio che sogna di ignorare Daria nei panni di una barbona con il senso di colpa che ne segue, l’intromissione di Daria nei sogni altrui, i suoi ricordi di cameriera quando arrotondava lo stipendio con ripetizioni al figlio del cuoco pakistano, inquietanti incontri notturni che all’inizio sembravano poter dare un po’ di conforto, il tepore rassicurante del termosifone che dall’infanzia sa placare ancora le insicurezze dell’età adulta.
Niente di quanto è scritto è inventato – non a caso tra i modelli letterari c’è Annie Ernaux –, ma è riadattato a seconda delle deformazioni della memoria, delle necessità del palcoscenico, per parlare alle orecchie interiori del pubblico usando le scorciatoie dell’inconscio. Certo non manca il sospetto di un’«obesità dell’io», come dice la Deflorian: di una tendenza umana, troppo umana, a farsi misura di tutte le cose.
Ma gli autori, oltre ad ammetterlo senza ipocrisie, riescono a scherzarci su perché sanno che gli artisti possono arrivare agli altri solo a patto di parlare di loro stessi, autenticamente, ingranditi da un sentimento che permetterebbe a chiunque di riconoscersi almeno un po’.
Deflorian e Tagliarini continuano a dirci che non esistono le parole giuste per descrivere il segreto delle nostre vite. Eppure nessuno degli attori ha intenzione di smettere di provarci, con continue acrobazie di allusioni, metafore, accenti, versi e grida che perlustrano ogni dettaglio dell’intima immensità del quotidiano, fino a farci venire il sospetto e la speranza che non vi sia nulla di insignificante nelle nostre vite.
Quando la Deflorian, nel finale, immagina un termosifone di ghisa a disposizione di ognuno per poi accoccolarsi sul suo, almeno per un istante sembra riempire di contenuto un discorso che chiunque ha lasciato e lascerà sempre in sospeso. Ma passa subito, e nei minuti di riorganizzazione della scena, in cui non si capisce se lo spettacolo è finito e si ascolta La domenica di Giovanni Truppi in attesa dell’applauso, quel contenuto svanisce ed è di nuovo tutto da rifare.
Così se secondo Jouve «la poesia è un’anima che inaugura una forma», si può dire che per il duo Deflorian/Tagliarini il teatro è un’anima che abita una forma. Ma è un’anima che sopravvive per poco, in questo caso per circa novanta minuti. Poi la soluzione smette di valere e ogni problema fisico e metafisico si riapre insieme alle porte della sala, perché se il cielo non è un fondale allora certamente la vita non è una scena e il mondo non è un teatro.
FOTO IN COPERTINA DI GIORGIO TERMINI
Il cielo non è un fondale, al Piccolo Teatro fino al 6 maggio