Comincia nel segno di Dario Fo la seconda parte della stagione della Dual band, che ha trasformato in spazio teatrale il passante di Porta Vittoria. Una stagione da scoprire tra musica e sguardo internazionale, con un rapporto profondo con la città
«Non c’era tempo e valeva la pena di perderci un secolo in più» lo cantava Fabrizio De Andrè traducendo George Brassens, e celebrando le “passanti”, gli incontri di un momento che avrebbero potuto cambiarci la vita. Potrebbe essere, però, anche una sintesi del lavoro della Dual Band, compagnia milanese non a caso composta di attori che sono anche cantanti e musicisti, e che del muoversi al confine tra le lingue – nel loro caso, non il francese ma l’inglese del Bardo – ha fatto una cifra stilistica che li ha resi un punto di riferimento.
Il loro è un teatro pensato per “passanti”. Quello cittadino, che collega i diversi punti della città, e in particolare la stazione di Porta Vittoria dove da anni sorge un luogo dal nome evocativo: il cielo sotto Milano. Un luogo conviviale e di scoperta, dalle prove agli applausi, del dietro le quinte del “farsi teatrale” Ma è, prima di tutto, un teatro per chi passa. Perché l’incontro di un momento, magari casuale, non diventi il rimpianto di una occasione mancata, ma la miccia di un’occasione di meraviglia, fucina di creatività, sala e centro di originali sperimentazioni artistiche. Per farlo, bisogna incominciare. E allora, il titolo sotto cui si riuniscono gli appuntamenti del 2024 non può che essere «Incominciamo senz’altro», la frase con cui Dario Fo dava il via alla magia del Mistero Buffo.
Della stagione ricca di affascinanti sorprese che parte in questi giorni abbiamo parlato, appena prima del suo inizio, con il cantante e attore Beniamino Borciani.
Il prossimo appuntamento è il concerto PopBaroque, sabato 27 gennaio. Uno dei caposaldi della vostra produzione è, in generale, la musica.. Perché?
La risposta è proprio nel nostro nome! “Dual” sono le due arti su cui la nostra compagnia, che è diretta da Anna Zapparoli (regista e drammaturga) e Mario Borciani (pianista e compositore), si fonda. Sant’Agostino diceva che: «chi canta prega due volte». Noi allargheremmo questa intuizione geniale, questo lampo di poesia, a tutte le parole umane: «chi canta parla due volte». Il canto altro non è che una delle forme del dire. Ma, se con il dire entri in contatto con la parte più logica del nostro modo di comprendere, la musica raggiunge zone più profonde, pre-logiche, della mente (si potrebbe chiamare cuore), e quindi fa capire le cose in modo diverso. Dual è anche la composizione professionale della nostra compagnia, al suo interno ci sono attori e attrici che sono anche cantanti. Il rapporto profondo tra il teatro e la musica ha sempre spinto le nostre scelte, di programmazione e artistiche: abbiamo parlato di tanti temi in forma di teatro musicale, di leggende bibliche e omeriche, di politica e storia di oggi, della storia del sesso (da Platone all’elettrone, dal canguro al paguro, da Mozart a Bogart), della RAI, tutto si può raccontare in canto! È un po’ la nostra cifra.
Una delle parole d’ordine di quest’anno sembra essere il superamento dei confini. Ci sono infatti tanti spettacoli che esplorano punti di vista nuovi, nuovi mondi. Cosa significa, per voi?
Cultura è, da sempre, superamento dei confini. Il teatro, a maggior ragione. Se stai chiuso nel recinto di quello che sai già sei morto. Guardo Shakespeare e il suo tempo, e penso al Sogno di una notte di mezza estate, su cui stiamo lavorando in questo momento: una novella latina che diventa una commedia inglese, ambientata in Grecia, con personaggi che discendono dalla Commedia dell’Arte italiana. Si fa un gran parlare, oggi, di linee di separazione, di distinguere quello che è “mio” da quello che è “tuo”. Ecco, il teatro non può sottostare a queste logiche. Per noi in particolare, c’è stata una vera e propria mutazione genetica, proprio in questi ultimi anni: Se da sempre consideravamo il nostro lavoro come un servizio, un teatro per, ci appare sempre più chiaro come questo servizio si sia evoluto in un teatro di natura assai diversa, un teatro con. E prima di tutto con i giovani e giovanissimi. Proprio adesso stiamo lavorando, per un bando di Fondazione di Comunità, sul Sogno grazie a un bando vinto con la Fondazione Comunità Milano. Un progetto gigante, con 7 laboratori di drammaturgia, musica, teatro, danza, teatro d’ombra e costumi, più di 40 ragazze e ragazzi che fanno tutto. Un fare che diventa lavoro di apprendimento, per loro, ma prima ancora, e molto, per noi! E poi qualsiasi atto poetico fatto in una stazione del metro, come quella in cui è situato il nostro teatro, diventa poetico al quadrato, acquisendo un’intimità diversa con lo spettatore.
Fate da anni un importante lavoro su Shakespeare. «Non per attualizzarlo, ma perché parla al presente». Ci spieghi meglio?
Shakespeare è incredibile. Lo apri e parla di te adesso. Lo riapri, magari anni dopo, magari la stessa commedia, e parla ancora di te adesso. È una cosa che ha del soprannaturale, provare per credere. Fa tutto lui. Poi, certo, si può sempre attualizzare «coi telefonini» come diceva Peter Brook, ma davvero, non ce n’è bisogno. In gran parte, è innegabile, perché tratta dei temi fondativi: odio, amore, sesso, crescita, potere, prevaricazione, il meccanismo stritolante della politica e della storia. Adesso, per esempio, su questo Sogno di una notte d’estate, salta fuori un tema: mentre i ragazzi innamorati, ricchi di famiglia, scappano per amore e devono scendere a patti con il proprio subconscio, c’è un gruppo di persone più povere – derise proprio perché sono povere e ignoranti – che cerca di fare teatro, e di venire rappresentato a corte.
C’è un’altra importante ragione, economico-drammaturgica, per cui lo amiamo: Shakespeare è uno di quegli autori che ci piace definire “generosi”. Mentre i grandi classici borghesi ottocenteschi devi farli con un grande cast, Shakespeare ti permette di fare operazioni con pochi attori, per compagnie contenute, dove il senso del testo non viene snaturato. Anche Bach, per esempio, è generoso allo stesso modo. (Oscar Wilde o Ibsen meno, ad esempio) E questo, se uno lo fa con intelligenza, è importante perché permette che i classici continuino a parlare.
Nella stagione ci sarà spazio anche per un approfondimento di pregio sul teatro fisico, e sul valore della risata, sia in scena che in un laboratorio dedicato. Per voi che lavorate molto sui linguaggi, che valore ha il corpo in scena.
Il 22 febbraio avremo in scena il nostro amatissimo Vladimir Olshansky. Lui è un grande artista; proviene dalla Russia, dove si sono formati i migliori mimi, i migliori clown. Ha collaborato per decenni con il Cirque du Soleil, è il sostituto di Slava Polunin in Slava’s Snowshow… è per noi un onore ospitare la sua masterclass per la seconda volta, e avere la prima mondiale del suo nuovo spettacolo “L’arte del riso” in stagione. Il corpo in scena è tutto: è indimenticabile, a proposito del nostro caro Vladimir, una certa scena dell’ultimo spettacolo che ha portato da noi: lui sulla scena da solo, con un ombrello. Raccontarlo è impossibile, ma sembrava che il suo corpo fosse un tutt’uno con l’aria intorno a sé, come se la gravità fosse annullata, e allo stesso tempo sembrava radicato in terra come una quercia secolare. Magia pura nel corpo di una persona.
Metà della compagnia è madrelingua inglese, e una parte importante delle vostre produzioni è in lingua. Perché farlo, e che funzione ha?
Le risposte sarebbero moltissime. Innanzitutto, nel teatro in inglese incontriamo un’altra delle vocazioni della Dual Band: quella pedagogica. Il teatro in inglese (che intendiamo sempre con sopratitoli in italiano) è nato pensando sia al pubblico serale adulto sia quello, preziosissimo, dei ragazzi e delle ragazze e delle scuole: poter offrire i classici inglesi nella lingua in cui sono stati scritti e pensati è un lavoro che ci appassiona da tanti anni, ed è qualcosa di molto utile per i docenti di inglese, che da anni ci seguono, e portano al Cielo sotto Milano i loro allievi.
Avere due lingue è un po’ come avere due modi di pensare: è affascinante recitare – o ascoltare – lo stesso testo nelle due lingue e vedere come certi meccanismi, certe battute, nella lingua tradotta non funzionano… sarebbe un gran peccato perderseli!
Da sempre fate parlare il vostro teatro con lo spazio urbano. Quale pensate che sia il vostro rapporto con la città?
Il Cielo sotto Milano è “geneticamente” connesso alla città, al Passante, (il treno), e al passante con la “p” minuscola, che non si aspetta di trovare una sala teatrale nella fermata di un metrò, e invece trova noi! Questo, negli anni, ci ha portato a programmare una serie di iniziative profondamente legate al territorio, quasi sempre in collaborazione con Associazioni vicine e amiche. Milano è una miniera di realtà che hanno tanto da offrire ai cittadini: le iniziative che creiamo servono anchea rafforzare uno spirito di comunità cittadina che in tante occasioni sembra mancare.
A proposito della città: quest’anno ci sono anche due progetti di quello che si chiamerebbe teatro sociale, con ragazzi under 25. Come si inseriscono nella vostra storia?
È importantissimo il lavoro con Associazioni amiche sul territorio! A cominciare da Spazio Ginkgo, che condivide gli spazi del Passante di Porta Vittoria, ed è cofondatrice, con noi ed altre realtà, della Fondazione Artepassante: Ginkgo fornisce un servizio di doposcuola per ragazzi della zona. C’è stato un primo incontro felice l’anno scorso, nel contesto del bando del Comune Milano è Viva nei quartieri. Quest’anno abbiamo voluto replicare e siamo felicissimi di aver vinto, in partnership con loro, un bando di Fondazione Cariplo per un progetto in cui, oltre a offrire tanti ingressi in teatro a prezzo politico a enti di quartiere e scuole di tutta la città, svolgiamo due laboratori per ragazzi e ragazze di origine straniera, di cui buona parte vive in un contesto di grande povertà economica e culturale. Il tema è la fiaba, il racconto: alcuni ragazzi portano fiabe del loro paese d’origine, altri scrivono dei testi ex novo che poi verranno messi in scena con loro sul palco a interpretare i personaggi. L’incontro con questo gruppo di ragazzi è una delle parti più elettrizzanti della stagione
Molta della vostra stagione è composta di autoproduzioni; un atto di coraggio, di questi tempi..
Arte vuol coraggio, soprattutto in tempi che alla cultura non riservano tanti occhi di riguardo. Ci sembra naturale investire sul nostro lavoro. La prima volta che mettiamo su un testo sappiamo che dovremo spendere denaro, ma poi resta in repertorio. Noi non buttiamo mai via niente, e alcuni nostri spettacoli tornano ciclicamente in scena da più di dodici anni. Ma ci sono anche tante istituzioni che ci stanno vicine, e che fortunatamente dedicano fondi di importanza vitale, soprattutto Fondazione Cariplo, che è attentissima a realtà come la nostra, e a Fondazione Comunità Milano, con cui è in essere lo straordinario progetto del Sogno di qui parlavamo prima..
In una stagione ricca anche di ritorni, qual è lo spettacolo che vi ha dato più soddisfazione?
Difficile scegliere uno spettacolo preferito, come per gli amici o i figli! Però, se dobbiamo scegliere… la stagione è cominciata con un nuovo spettacolo, MammaRAI!, un manuale, in bianco e nero, della storia della nostra RAI, che quest’anno compie 70 anni. È stato una gioia buttarsi a capofitto in questo mondo allo stesso tempo così scintillante e oscuro: è una storia che racconta tanto dell’Italia, nel bene e nel male. E poi ballare i balletti delle Kessler…vuoi mettere il divertimento?!