Il corpo della dittatura secondo Frosini e Timpano

In Teatro

(foto presa da www.elfo.org)

In due spettacoli la compagnia Frosini/Timpano porta in scena la parabola della dittatura del Novecento, da Mussolini a Ceaucescu

“La parola si è fatta carne”. Viene in mente un incipit evangelico, e non è un caso, per figure che hanno trascorso tutta la propria esistenza a costruirsi una mistica. Mistica che passa, innanzitutto, dalla loro figura.

Nel caso di quelle portate in scena al Teatro Elfo Puccini da Daniele Timpano e poi Elvira Frosini, ad incarnarsi è l’emblema stesso dell’orrore, così come la storia lo consegna a due mondi lontani solo in apparenza: l’Italia fascista e la Romania comunista di Ceausescu. Si fa carne il male, ma non solo. Si fa carne il mito perverso di un potere che fagocita se stesso, che si esalta e mitizza fin oltre le soglie della vita e – soprattutto – della coscienza.

Sono storie di corpi, quelle di “Dux in scatola” e poi de “Gli sposi”. Corpi esplosivamente vivi anche da morti. Corpi, però, disarticolati, disgiunti e rigidi, come i fantocci da farsa. Ed è esattamente questo che sono – a ben osservarli fin dal loro fisico. Sono pupi ridicoli e scomposti, ampollosi e grotteschi. Non già e non solo perché ridere del male lo ostracizza e lo allontana, ma perché così li riveste e li restituisce la narrazione che hanno fatto di sé.

Si costruiscono, infatti, re vanesi di un pianeta che – a differenza di quello del piccolo principe esiste ed è abitato da una folla plaudente, reale e storica. Il loro tempo ma anche il nostro tempo, perché mentre lì osserviamo prorompere in gesti ampollosi e frasi retoriche non possiamo dimenticare che – là fuori – ci siamo noi e non qualcosa di diverso.

E se da un altro tempo e un altro luogo possiamo osservare il puntuale ripetersi di uno schema, in cui “il grande dittatore” si erge (viene erto) a emblema di una realtà costruita a sua misura, dove tutto va sempre bene, dove l’eroismo non ha macchia e la felicità viene raccontata brillare laddove c’è la morte. Il “tradimento” dell’ideale, e più ancora, di sé, non sta nell’orizzonte di questi corpi che si dibattono nello sforzo spasmodico di sostituire a quella che gli accade intorno una propria, vittoriosa, realtà nell’unico modo che possono concepire.

E tuttavia, in un lavoro, anche fisicamente, di grande qualità, che ne sottolinea le qualità attoriali, prima Daniele Timpano da solo, nei panni del corpo morto e vitalissimo di Mussolini, e poi la coppia ricomposta con Elvira Frosini, a incarnare l’amore vendicativo e l’odio fedele di Nicolae con Elena, Lenuta, Ceaucescu, l’obiettivo della compagnia romana è consegnare, con oggettività, due parabole storiche. Come sempre nei loro testi lo fanno fuori di retorica didattica ma senza alcun tentennamento etico, e – soprattutto – con grande precisione documentale.

Trovano così voce due storie che credevamo soltanto di conoscere. Quella del corpo morto del duce, che dall’indomani della morte a Giulino di Mezzegra fino alla quiete ammantata di nostalgia nella cappella di famiglia a Predappio – passando per i dodici anni nascosto in una cassa di sapone a sua volta sepolta dentro un armadio di un luogo tenuto nascosto, rievoca l’amore e poi l’odio – violento come solo quando si è molto amato e ce ne si vergogna – per una figura che è stata soprattutto corpo, grottescamente mitizzato.

Mentre un divertente e acuto Daniele Timpano riavvolge il nastro della storia, accompagnato solo da un baule, uno dei tanti, tuttavia, piano piano emerge quel che meno ci piacere vedere. Che il protagonista non sono i mitizzati, ma coloro che il mito lo hanno creato. Noi.

Noi che abbiamo assistito silenziosi – con la voglia di nascondere – a un corpo trafugato  e poi divenuto merce di scambio per un pugno di voti – quelli dell’MSI necessari a tenere in piedi il governo – fino a trasformarsi, oggi, in mero oggetto di marketing ammantato di una nostalgia che conosce solo le forme rapide dei social e degli slogan. Forse proprio perché sono mancati spettacoli così, che la storia non te la insegnano, te la lasciano toccare, scomodo come solo quando ridi di qualcosa che non ha nulla di divertente.

Mutano i tempi e i colori ma non l’ossatura concettuale, ne Gli sposi, in cui Frosini e Timpano portano in scena un testo di David Lescaut che sembra scritto su di loro. Anche qui, la tornano la retorica grottesca, l’abbondante ironia e l’esasperazione che porta vicino alla marionetta questi due corpi che si sfiorano quando i due sono ancora ragazzi di campagna della profonda provincia rumena, poi si avvicinano fino a diventare uno alla conquista del potere, un corpo ventriloquo di cui è lei a muovere i fili, a suggerire, ad animare un involucro che si direbbe apparentemente vuoto se non fosse animato da ambizione e frasi fatte che parlano di popolo solo fino a che la voce la restituisce un microfono.

Il male è anche donna, ugualmente, sembra suggerire la coppia, ed è una maiuscola Elvira Frosini a prendersi una scena pur ben equilibrata in cui – impossibile non evocare il riferimento classico – prende le sembianze di una lady Macbeth in salsa slava per tutta la durata della vita pubblica della coppia di potere e del conductor. Non a caso, ed è evidente osservandoli uno dopo l’altro, è proprio dagli stilemi fascisti che il dittatore romeno costruisce la propria immagine pubblica, e non a caso l’Italia – che alla Romania ha prestato semmai l’ingenua vacuità delle canzoni pop – occhieggia sotto traccia, tra una punzecchiatura e un discorso pubblico.

Questo almeno fino alla fine – quando regrediti a un tratto di infantiilità che fa del processo farsa una sorta di punizione scolastica, gli innamorati di provincia ritornano a esistere solo uno per l’altra, mentre la rete di menzogne che avevano costruito cade – come già per il dittatore italiano, sotto i colpi del plotone di esecuzione. Anche in questo caso, ciò che è comparso in tragedia e tornato in farsa muore (o forse rivive) in marketing surreale, sulle note di una canzone pop in cui l’amore patinato nasconde la tragedia di una liberazione che forse non è arrivata davvero.

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