Il diluvio di parole che nasconde e svela il male di vivere

In Teatro

Al Piccolo Teatro fino a domenica 24, “L’origine del mondo”. Una summa – per scelte stilistiche, contenuti, e intelligenza – del Teatro di Lucia Calamaro. Uno esempio da manuale del teatro di parola al suo meglio: protagonista, una Concita De Gregorio dalle sorprendenti doti d’attrice.

Riempire uno spazio altrimenti vuoto – nudo, come siamo quando siamo soli – di parole, pur di non sentire il dolore, che a sua volta tace, non grida, eppure fa un rumore troppo forte per non essere coperto; di conversazioni frivole, o profonde, lievi o celebrali, intime ed essenziali come la ricerca del proprio senso, o anche cosa mangiare una notte in cui non si dorme e si cede al frigorifero. Così Lucia Calamaro in L’origine del mondo racconta la depressione senza darle nome, ma mettendone sulla scena le forme tipiche e le conseguenze, che riconosciamo e – altrettanto spesso – allontaniamo. Hanno forse allora i tratti dell’esorcismo le risate copiose e piene che accompagnano il primo atto della nuova ripresa del classico della drammaturga e regista romana, nella storica sala di Via Rovello del Piccolo Teatro fino a domenica 24. Sono, però, anche la certificazione di una veste, quella d’attrice, che si attaglia con sorprendente eleganza a Concita De Gregorio, pienamente a suo agio in un ruolo da protagonista che, benchè alle prime prove sul palcoscenico da, per così dire, “scritturata”, le consente di mostrare una invidiabile scioltezza e padronanza dei tempi scenici, comici e non solo. Il suo personaggio, come è consueto nei lavori di Calamaro, è ricalcato sulla sua interprete con qualche minima variazione (spesso di servizio, qui del tutto assente) e contraddice l’assioma che la stessa Calamaro aveva affidato a un altro dei suoi personaggi, in questo caso un alter ego, come la scrittrice di Smarrimento cui – mentre era impantanata in storie impossibili da concludere – faceva sbottare: “la spicciolaggine del quotidiano è antinarrativa!”.

Con la consueta libertà compositiva su cui sostiene i suoi lavoro, in una apparenza di leggerezza che esige una grande tecnica e una penna di rara raffinatezza, è invece su quello stesso quotidiano che si regge e si misura il mal di vivere. Uno straccio da cucina diventa allora metafora della fine – un altro tema ricorrente, nella produzione di Calamaro – e il suo passare sulle cose un gesto “discreto per dissimulare la morte”. Ma anche il dolore che innesca la rabbiosa incomprensione di una madre – in queste nuove tappe della tournèe interpretata da Carolina Rosi –  il cui riferimento paiono essere (anche dichiaratamente)  le donne volitive della grande commedia napoletana. Un dolore che rende titanico anche persino lo sforzo di una figlia – Mariangeles Torres, convincente e misurata – di essere vista dalla propria, di madre, di farsi il punto di equilibrio di un sistema strutturalmente entropico, che una grottesca psicologa riesce solo a rendere ancora più caotico.

Se nel debutto romano di questa ripresa, in cui i ruoli della madre e della figlia di Concita, erano affidati a Lucia Mascino e Alice Redini, l’esplosione del comico si concentrava soprattutto nel secondo atto, nelle date milanesi Torres e Rosi, libere come le colleghe dal verosimile anagrafico, sembrano costruire un climax che muove dalla risata aperta, anche laddove (come nel primo atto) le atmosfere sono più cupe e le premesse più franche, animate dall’apparente distacco, tipicamente romano, che innerva la scrittura di Calamaro. La fotografia del male sottile e dei suoi esiti, dal rifiuto del mondo alla stanchezza senza forma, si fa invece via via più precisa mano a mano che la messa in scena prende luce e al contempo si rinchiude negli ambienti tipici del teatro di Calamaro, come sempre cubi di luci asettiche tratteggiati come ambienti da poche essenziali suppellettili variamente ingombranti, che occupano anche i pensieri o ne diventano una metafora. La casa si stringe e rassicura, lasciando andare il dovere di mostrare agli altri la propria espressione migliore. Così la professionista che – fuori – dovrebbe essere d’aiuto, potrebbe essere soltanto la proiezione immaginata e un po’ ridicola di un mondo che come lei non ascolta, in cui non ci si ascolta. Semplicemente continua a esistere, senza rispondere alla fame di senso della protagonista; o un miraggio del tempo che scorre, in cui le madri invecchiano e le figlie crescono e si allontanano. Forse per sopravvivere non resta che adattarsi ai piccoli bisogni del quotidiano, porre solo gli interrogativi utili, tipo: “quanto ti serve?”. Del resto, se il monito della madre è pungente quanto spietato “Se non ti applichi, la morte supera di gran lunga la vita, in termini di durata”, in questo lavoro raffinatissimo, divertente e di rara densità di pensiero, la risposta somiglia soltanto a una resa, ed è piuttosto il suo contrario: un equilibrio che soltanto in teatro si riesce a sintetizzare con precisione e senza retorica: “il mondo non dipende da me, anzi: provocatoriamente, smaccatamente, il mondo da me prescinde”.

Foto © Claudia Pajewski

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