Al teatro Carcano fino a domenica, Fabio Troiano porta in scena un monologo di Gaber e Luporini del 1993, per cercare di capire, con ironia e senza pietismi, all’uomo dei nostri (e dei suoi) tempi
Quando vai a vedere uno spettacolo il cui testo è firmato Giorgio Gaber e Sandro Luporini, pensi di sapere cosa avrai davanti agli occhi. Se quello spettacolo, però, è “Il dio bambino”, in scena al Teatro Carcano fino al 16, però, probabilmente ti sbagli. In primo luogo – e soprattutto – perché non è quello che Gaber (e Luporini, che si dimentica spesso ma è metà essenziale pressochèdell’intera produzione Gaberiana) ha reso il proprio marchio di fabbrica, quel teatro canzone di cui è interprete imitato e saccheggiato ma non imitabile. Le canzoni ci sono, ma sono un inserimento posticcio del regista, Giorgio Gallione, che del connubio tra musica e scena molto sa e molto ha sperimentato. Un’inserzione efficiente e affascinante, senza dubbio (del resto, la lacrima che si fatica a trattenere quando sul finale comincia “Quando sarò capace di amare” non si può derubricare certo al solo effetto nostalgia. È, anche, una scelta che funziona, e del resto non potrebbe essere altrimenti, visto che sta lì a dimostrare quanto, nella produzione Gaberiana, le parole per musica e quelle per la scena costituiscano le due metà essenziali di uno stesso discorso, interpolabili per loro stessa natura e funzionali ad evocare (nel senso latino di far emergere) qualcosa di comune e intimo dello spettatore e forse del, degli autori, comunque dell’uomo in generale. Funziona, si diceva, l’inserimento delle parole e della voce del Gaber musicista e cantautore, in una scelta che spazia dal Gaber maturo all’esperimento dei Blues Brothers in salsa meneghina, quegli Ja-Ga Brothers non di molto antecedenti ma che si rifanno alla giovinezza blues condivisa col sodale di una vita Enzo Jannacci.
Funziona a patto di ricordarsi che, nella versione originale, la musica non c’è. In questo c’è forse una componente essenziale, suggerisce il protagonista di oggi, Fabio Troiano, del motivo per il quale il monologo, andato in scena soltanto a Milano, per un mese, nel 1993, e poi mai ripreso dal suo autore, è sfuggito agli occhi anche dei fan più incalliti del cantautorattore di origini triestine.
A dargli nuova vita ci aveva pensato Eugenio Allegri, e poi, appunto, Troiano. Che si sobbarca, e lo fa bene, un compito tutt’altro che facile. E non (solo) per il peso dei nomi fatti fin qui.
“Il dio bambino”, monologo che la coppia Gaber Luporini inseriva nella propria produzione alla voce “teatro di evocazione” è una sfida perché è una prova a suo modo muscolare. È una corsa – a tratti a perdifiato, a tratti con brusche frenate – attraverso la vita di un uomo, e qui la parola vale nel suo senso più stretto di maschio. E così la restituisce Troiano, impegnato come ad emergere in una scena ingombra del brillio ingannatore e dal fascino artificioso di fiori di carta che sembrano i resti di una festa andata (a) male, mentre un muro di carta metallica e il suo finto colore cadono e si rialzano col peso di una ghigliottina.
Quanto è difficile, raccontare la meschinità lunga un’esistenza di un uomo comune a cui «è capitato tutto per caso»? Sia detto senza giudizio di valore, si intende, non foss’altro perché è comune a tutti.
Di fatto, l’uomo messo in scena, che si innamora della moglie dell’amico Gilberto fino a farne sua moglie, che la tradisce e si fa tradire, che la giudica e poi l’aspetta, finisce con l’essere disturbante proprio nella sua medietà. Se solo lo spettatore (ambigenere, in questo caso) entra in teatro insieme a qualche insicurezza – sia essa intorno all’età, agli obiettivi raggiunti e da raggiungere, nella vita e nei sentimenti – potrebbe scoprirsi con orrore troppo simile a quell’uomo così normale, così confuso nella sua (tutta apparente, anche qui) scioltezza nello stare in mezzo agli altri e alla vita in generale.
Qui sono gli uomini, sembrerebbe suggerire il titolo, ad essersi costruiti un dio a immagine e somiglianza, ogni giorno del quotidiano. Un dio bambino, capriccioso e fragile. A cui forse solo l’irruzione incontrollata e incontrollabile dell’altro da sé – proprio nella forma del bambino, e quindi di dio – può dare una parvenza di composizione e di senso, chissà poi quanto effimero e quanto definitivo.
Fabio Troiano, attore poliedrico, è abile a dare vitalità a un racconto molto cinico proprio perché il suo protagonista prova a consolarsi e che – seppure pare mostrare in alcuni passi il tempo trascorso dalla sua scrittura – lo fa proprio perché certe frasi e gesti stonati li riconosciamo abituali anche oggi. In questo contesto, all’occhio dell’uomo la donna è colei che riesce o può riuscire, se vuole a «interessarsi a me, dal di dentro del mio egoismo». Dopo Parlami d’amore Mariù, così Gaber e Luporini continuano a cercare di parlare d’amore per riconoscersene un limite. «Io non appartengo a me – dice il protagonista – figuriamoci all’amore. Il mio amore è solo quello che ti dò». Un’impotenza che troverà una sintesi luminosa quando Gaber salirà sul palco insieme a una signora del teatro come Mariangela Melato e nei panni di Alessandro si farà dire: «Se potessi parlare di Maria avrei fatto la mia rivoluzione». L’amore. Quel sentimento che rende belli, ma non si può raccontare, perché «lo stare bene non fa drammaturgia». Ma anche il dolore perde pathos, quando ci somiglia, quando è comune diventa una cosa piccola, semplice, come un bambino indifeso che non vuole crescere. E si può solo provare a non assolversi, con una buona dose di autoironia ma continuare a guardare con tenerezza, da fuori, all’uomo che siamo.