Italiani al debutto. “Il fiume ha sempre ragione” di Silvio Soldini è un poetico, affettuoso documentario girato negli atelier di Alberto Casiraghy e Josef Weiss, dove nasce il dialogo tra gli uomini in forma di libro, “Tommaso” indaga l’arduo rapporto uomo-donna nella figura di un bell’attore incapace d’amare. Troppo déjà-vu: l’eterno fanciullo, la mamma incombente, l’analista inutile, le toste ragazze d’oggi
È possibile un viaggio nella forza ancestrale della parola? Certo, se può diventare un’indagine estrosa come il documentario di Silvio Soldini Il fiume ha sempre ragione. La macchina da presa del regista unisce l’esuberanza dell’editore e poeta Alberto Casiraghy con la pacatezza del tipografo Josef Weiss. Entrambi narrano il loro appassionato lavoro tra aforismi stampati con un macchinario di tempi lontani, edizioni passate di volumi riportati in vita da un restauro curatissimo, testi e tomi che riempiono gli scaffali dei loro ateliers a Osnago e Mendrisio.
Incuriosito dal patrimonio di creatività a sua disposizione, Soldini non è solo mediatore tra lo schermo e il pubblico, ma si pone volentieri al servizio e soprattutto all’ascolto dei due protagonisti; l’intero svolgimento è così nelle mani di riflessioni e aneddoti, che si lasciano andare oltre i meandri della letteratura. Nella casa editrice di Casiraghy e nella tipografia di Weiss si vuole certamente “rendere omaggio”, ma prima di tutto ricercare la purezza dei nostri discorsi, di qualsiasi natura. La semplicità artigianale dei fogli e dell’inchiostro per le poesie della gente e una sorta di devozione minuziosa nella rilegatura di un manuale seicentesco sono l’occasione per ingrandire quel desiderio innato e infinitamente umano di espressione, e per renderlo uno strumento di osservazione più stupito e per niente scontato di fronte alle sfumature della realtà e a noi stessi.
Se da un lato la presenza registica intende non essere troppo invasiva, dall’altro gli espedienti tecnici del mezzo cinematografico favoriscono il lirismo di questa atmosfera a livello sia formale sia contenutistico. L’immensità delle inquadrature affollate da libri e attrezzi della stampa descrive due mondi sospesi nella dimensione atemporale eppure radicati nella nostra esistenza. Dalle sequenze strettamente vicine ai lavori di scrittura e di ristrutturazione si percepisce la volontà di fornire i dettagli, organizzati in modo da suscitare nello spettatore lo stesso sincero affetto, che in toni diversi ispira gli animi dei due artisti-artigiani. Non ha meno importanza la cornice brianzola e del Canton Ticino, in cui si può scorgere il fiume del titolo. Lo spirito pacifico racchiuso nei totali del paesaggio incontra la spensieratezza e la delicata profondità avvolta nel cuore dell’opera.
La breve avventura di Soldini mescola l’alchimia delle parole al richiamo verso il loro valore in tutti i contesti. Senza perdere mai di vista una misurata sobrietà, il regista non frena davanti all’obiettivo un linguaggio brillante, sagace e dritto al punto: la capacità di manifestare ciò di cui vogliamo parlare è un dono inesauribile. Sta a noi addentrarci tra i suoi affascinanti misteri, fino a restare sbalorditi dalle sorprese entusiasmanti trovate; con la simpatia e il loro carattere amichevole, Casiraghy e Weiss lo suggeriscono apertamente allo spettatore, e svelano un varco nell’universo illimitato della comunicazione.
Tiziano Bertrand
Kim Rossi Stuart tra Moretti e Fellini. e molto se stesso
L’eterno fanciullino pascolian-freudiano e la momma incombente tra De Gregorio e Woody Allen; l’analista paziente e inutile, col volto gentile di Renato Scarpa e un nugolo di toste ragazze d’oggi, dalla fugace Jasmine Trinka all’accogliente Cristiana Capotondi, alla coatta pazza, ma in fondo simpatica, Camilla Diana. C’è veramente tutto, e un po’ troppo di tutto, per essere originale, in Tommaso, opera seconda e meno riuscita della precedente (Anche libero va bene, 2006), anche se altrettanto puntigliosamente cucita addosso a sé, dell’attore-regista Kim Rossi Stuart: che qui interpreta, dopo le risse coniugali del film di dieci anni fa, con il bambino come vittima principale (c’è chi dice che qui siamo di fronte a lui cresciuto, con relativi problemi originari, mah?), un’altra faccia della contemporanea crisi dei rapporti uomo-donna , quella del single che non riesce a sostenere una relazione.
Tommaso, 40enne attore in crisi dalle ambizioni di autore (ogni riferimento autobiografico è evidente, compresa la battuta, questa forse involontaria, sulla scarsa tenuta del copione che sta scrivendo) desidera, incontra, forse si innamora, sicuramente delude, tutte le fanciulle in cui si imbatte e che cerca sinceramente di inglobare in un suo progetto di vita che cerca lui per primo, senza successo, di capire, prima ancora che di realizzare. Finisce sempre male, a volte malissimo, dipende anche da chi lascia chi. E l’ultima relazione che nel finale sta per nascere, dopo un gravissimo incidente di cui lui è vittima, sorte molto simile a quella della sua possibile nuova compagna, non sembra plausibilmente promettere che la vicenda umana del protagonista si sposterà molto dal punto di partenza. Del film e di tutte le sue altre “storie”.
C’è troppo déjà-vu in Tommaso, tra fellinismo, morettismo (muove pure in quella direzione una certa somiglianza fisica), psicanalisi un po’ troppo semplificata. Peccato, perché le attrici, in diversi modi, sostengono abbastanza il loro compito, in primo luogo la Capotondi e Dagmar Lassander, mitica b-star del cinema italiano anni 70: ma il film sembra tornare sempre allo stesso punto, non “partire” mai davvero. Probabilmente è vero che il maschio italiano d’oggi non va da nessuna parte, per quanto buone e sincere siano le sue intenzioni, ma neanche il film di Rossi Stuart suggerisce alcuna ipotesi per “darsi una mossa”. Daccordo, forse questo non è neanche il compito del cinema, però così l’impressione della pip… mentale sembra molto fondata.
Gabriele Porro