Al teatro Litta, dal 12 al 22 novembre, Il fu Mattia Pascal, l’uomo che visse due volte, (produzione: Teatro degli Incamminati) spettacolo basato sul romanzo pirandelliano che mette in scena la storia di un uomo che sceglie di scappare dalla vita
Vivere come un’ombra e indossare una maschera sono le tematiche principali dello spettacolo, che infatti si apre con la proiezione su un telo bianco di ombre di marionette rappresentanti Mattia Pascal, Oliva, Romilda, la vedova madre di Romilda, Mascagni e Pomino, con le voci fornite dagli attori.
Attraverso questa scena di ombre proiettate viene narrata la prima parte del romanzo, quella in cui Mattia Pascal, mettendo incinta Oliva e poi Romilda, crea la situazione iniziale, in cui egli viene costretto dal ricco Mascagni a sposare Romilda per riparare all’accaduto.
Questo matrimonio non scelto (Pascal era infatti innamorato di Oliva, moglie di Mascagni) getta Mattia in uno stato di frustrazione e inadeguatezza, accentuato dalla convivenza con l’odiata suocera. La scelta di raccontare con ombre e marionette questa prima parte allude al sentimento di essere una maschera, o addirittura una marionetta manovrata da altri, da parte del protagonista, che fugge da tale realtà.
Il vero esordio dello spettacolo, con l’entrata in scena dell’attore che interpreta Mattia Pascal (Mino Manni), vede infatti il protagonista ribellarsi alla prigione in cui si sente costretto a vivere e andare al casinò. Il telo bianco su cui prima erano proiettate le marionette è fissato su un asta circolare che occupa il centro del palco e che crea uno spazio chiuso quando le tende sono sciolte e allargate su tutto il diametro dell’asta. Il casinò viene qui raffigurato grazie alla proiezione dei numeri della roulette russa che vorticano velocemente grazie a una macchina delle ombre al centro del cerchio, mentre la voce fuori campo del croupier commenta la scena non vista dal pubblico. Pascal ha vinto 91 mila lire, una cifra altissima che gli avrebbe permesso di saldare i debiti contratti per tenere la Stia, il podere familiare.
Tuttavia da un articolo di giornale Mattia apprende che la suocera e la moglie l’hanno riconosciuto nel cadavere di un annegato in avanzato stato di decomposizione, e ne hanno annunciato la morte in pubblico. L’odio e il rancore per la suocera e la moglie, che si sono volute sbarazzare di lui, cede lentamente il passo alla considerazione del fatto che con i soldi della vincita avrebbe potuto tranquillamente vivere 30 anni, cosicchè si fanno finalmente strada in lui la gioia e la contentezza all’idea di poter essere finalmente libero.
Dopo alcuni viaggi decide di fermarsi a Roma, dove incontra un uomo che parrebbe essere il suo alterego in una proiezione futura: l’uomo rivela infatti di vivere solo, ma dice anche che questa solitudine, più che libertà, è mancanza di vita, affermando che la vita è un susseguirsi di bestialità e voler sottrarsi a queste ultime equivale a non vivere. L’uomo, che si presenta come Adriano Meis lascia a Mattia l’indirizzo di un affittacamere cui Mattia si recherà e dove, non sapendo come presentarsi, improvvisa dicendo di chiamarsi Adriano Meis, come l’uomo appena incontrato. Questa è una variazione rispetto al romanzo, in cui invece è per puro caso che Mattia sceglie quel nome: poiché sente alla stazione nominare da persone sconosciute i nomi di Adriano e Cammillo Meis, e così, con una crasi, sceglie di comporre il suo nuovo nome.
Rispetto al romanzo pirandelliano, la regia di Alberto Oliva innesta ulteriori differenze: manca l’inizio in cui Mattia Pascal è ormai vecchio e dalla chiesa sconsacrata in cui vive con padre Egidio si accinge a scrivere della sua assurda vicenda. Assente anche il riferimento alla madre di Mattia e alla figlia che egli aveva avuto da Romilda: la fuga di Pascal, nel romanzo, è immediatamente successiva alla morte quasi contemporanea della madre e della figlia di un anno.
Questa scelta del regista è probabilmente dovuta alla volontà di rendere lo spettacolo più “realtà generale” e meno “storia particolare”, e per far sì che il fulcro della rappresentazione riguardasse maggiormente la parte in cui il protagonista si ritrova a vivere da “ombra”, o meglio, da morto ancora in vita.
Lo sviluppo principale dello spettacolo si svolge presso l’affittacamere (il bravo Marco Balbi), un uomo panzuto e dai capelli bianchi, che parla di filosofia e che riveste un ruolo importante nel susseguirsi dei dialoghi.
Egli non si occupa nei fatti di affittare le stanze, lavoro che relega alla figlia Adriana (Margherita Lisciandrano), giovane dall’atteggiamento puro e monastico. Nella casa vivono anche il cognato di Adriana, marito della morta sorella di lei (Alessandro Castellucci), e una stravagante signora in là con l’eta, Silvia Caporale, interpretata dalla virtuosa Gianna Coletti, cui si deve il merito di portare un po’ di gag sul palco: particolarmente comica la scena in cui la donna sostiene di essere una musicista posseduta che ormai ha però perduto ogni talento. Forse uno degli sprazzi più vivi ed energici della messa in scena.
Lo spettacolo termina col ritorno del protagonista al paese d’origine; ricompaiono le ombre delle marionette proiettate sul telo, con la differenza che Mattia Pascal è la proiezione dell’autore reale, a indicare forse la liberazione dalla maschera del personaggio, che torna nel mondo reale affrontando i problemi: Romilda si è infatti sposata con l’antico corteggiatore Pomino, da cui ha avuto una figlia.
Nonostante la bravura degli attori, questo continuo gioco di ombre e tendaggi, di verità e maschere, non è in grado di movimentare narrazioni e drammaturgie che stentano a carburare. Quello di Oliva è sicuramente uno dei “nomi giovani” più interessanti, ma il suo Mattia Pascal resta un po’ opaco, vittima di una narrazione troppo lineare, incapace di sopravvivere alla sua mancanza di dinamismo.