Una celebrazione dell’insoddisfazione borghese e della superficialità che ferisce l’arte e l’amore. Uno spettacolo semplice e ambizioso al tempo stesso
Leonardo Lidi affronta Cechov in tre tappe e la prima è Il Gabbiano. Lidi identifica ne il gabbiano tutto quello che del teatro lo affascina, e infatti in questa sua regia gioca col teatro: lo distrugge, lo sminuisce, lo abbassa e lo innalza, così trasforma le graticce e le americane del teatro in paramenti d’arredo e non permette agli attori di uscire mai di scena, per un risultato finale che mostra tutto l’amore che nutre per il testo e per i suoi personaggi.
In questa messa in scena non si ricerca il naturalismo psicologico con cui sono spesso trattati i testi di Cechov, anzi la finzione è dichiarata e a volte addirittura esasperata nel momento in cui al realismo viene privilegiato il simbolismo. I personaggi non abbandonano mai la scena, sono sempre lì a osservare, a spiare, a giudicare o a guardare ma non “ritornano” mai attori. Sono sempre Sorin e Dorn quelli seduti a prendere in giro Kostjia che depone ai piedi di Nina il fatidico Gabbiano.
Questo stimola e arricchisce l’interpretazione dei personaggi effettivamente in scena, permette di giocare e di mostrare i significati contraddittori tra le parole e i veri desideri dei personaggi. La natura metateatrale del testo non viene quindi rivolta al pubblico, ma agli attori stessi, e i personaggi si nutrono di questi sguardi che sentono addosso e non hanno mai una via di fuga dalla trappola borghese scritta da Cechov.
La forza di Massimiliano Speziani regge e smuove tutto lo spettacolo: porta sul palco l’energia della commedia con un vigore così vivido e vibrante senza perdere quanto profondo e complesso sia il suo personaggio. Speziani mostra senza vergogna tutti i pregi e i difetti di Trigorin, le sue difficoltà, la sua codardia. Lo mostra in maniera genuina, trasparente come un bambino.
Con Nina e con Irina risulta sia viscido che “sfigato” creando un mix di simpatia, un personaggio che si abbassa alla pancia invece che elevarsi nella cerebralità e viene dominato non solo da Irina Arkadina ma, in questa versione, anche da Nina… atterrando sempre in piedi, ovviamente. Portano leggerezza sul palco anche Masha e Medvedenko, interpretati da Ilaria Falini e Giordano Agrusta, vivendo i loro drammi d’amore con i ritmi di un perfetto duo comico.
Lodevole l’analisi e le scelte prese sul personaggio di Nina, interpretata da Giuliana Vignola che la rende concreta, terrigna, nata e cresciuta in campagna in mezzo ai contadini – e non la solita fanciulla delicata e innamorata, con la testa fra le nuvole definita dagli uomini che la circondano. No, finalmente Nina è una che agisce e prende decisioni e ha il controllo della sua vita, che non si lascia affascinare da Trigorin ma lo incanta lei stessa, che non si lascia sminuire da Kotjia e gli risponde a testa alta. Quella di Vignola è una Nina sicuramente più moderna e con cui è anche più facile immedesimarsi. Non ha bisogno di un uomo, a lei basta il teatro. È sempre lei la fautrice della sua vita.
È spietato il lavoro sul personaggio che viene fatto su Irina Arkadina (Francesca Mazza), affiancata costantemente da Polina (Angela Malfitano). Lidi ci mostra che sono due donne, coetanee, due amiche che parrebbero a prima lettura completamente diverse: la grande attrice e la moglie dell’amministratore, l’artista e la contadina, la ricca e la povera, quella con l’amante più giovane, quella con l’amante distratto. Invece questa lettura dimostra che la prole malinconica e depressa non è l’unica cosa che le accomuna. Infatti Irina, sotto sotto, è come Polina: una donna con le sue gioie e le sue insoddisfazioni e di atto in atto i due personaggi si somigliano sempre di più. Non importa che uno abbia vissuto una vita di lusso e l’altra una vita semplice e in campagna: hanno bisogno delle stesse cose e subiscono la stessa insoddisfazione borghese.
E si potrebbe scrivere ancora molto sull’intelligenza con cui è stato analizzato e messo in scena questo testo, ma non serve pensare che sia uno sforzo intellettuale o che non ci siano corpo e sentimenti in questo spettacolo, tutt’altro. Il capolavoro di Cechov è, in questa versione, più vivo che mai.
Foto © Luigi Orru